(N.1 al mondo su 313.000 entries con la rubrIca “Suggestioni e percorsi poetici” come potete verificare qui – 20/6/16 – 12.13 cet)
(pubblicato nel contesto di “Art & Culture” N.1 su 60.700.000
come potete verificare clickando qui 14-5-16 CET 5.00)
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( …clickando qui la 1. parte) …
… Leggenda narra che in quell’estate del 1914, piena di fermento interventista, si aggirasse per Firenze un uomo vestito da “montanaro” che vendeva, o cercava di vendere, vis a vis ai passanti un libro con la copertina giallo ocra. Non solo ai passanti, ma soprattutto fra i tavoli dei due celebri caffè dell’allora Piazza Vittorio Emanuele: Le Giubbe Rosse e Paszkowski. Sì quegli stessi che oggi sono affollatissimi di turisti in Piazza della Repubblica, ma allora frequentati dal gotha dell’intellighenzia italiana, tutti quei letterati ed artisti che facevano riferimento alla rivista La Voce e tutti quelli della corrente che stava prendendo sempre più voga soprattutto in quei mesi di campagne pro guerra: i Futuristi. Dino Campana si distingueva fra loro già dall’abbigliamento non certo “fiorentino”, per i modi senz’altro bruschi con quel suo carattere scostante e scontroso, insomma c’entrava poco con quella cerchia, molto poco. Eppure quel montanaro sulla trentina era un uomo colto, molto più della maggior parte di loro, leggeva e traduceva in quattro lingue, conosceva la letteratura, sia i classici che i contemporanei. Sì tutti molto bene, anche quei Jammes o Maeterlinck che incarnavano il gusto decadente della poesia di quegli anni, anche profondamente quel Rimbaud scimmiottato dal Vate che per Dino era “la massima cloaca della letteratura mondiale”, anche tutti quei volti presenti nei caffè: Papini, Prezzolini, Soffici ecc.; conosceva soprattutto un americano che pochissimi conoscevano in Italia, quel Walt Whitman vero padre della poesia moderna. La leggenda narra che quando riusciva a trovare un acquirente, ammesso che ne abbia trovato qualcuno, lo guardasse bene in volto e prima di consegnargli il libro stappasse quelle pagine per le quali non lo riteneva “all’altezza”. Si narra ad esempio che a Filippo Tommaso Marinetti abbia strappato tutte le pagine consegnandogli soltanto la copertina… Questo narra la leggenda e come tutte le leggende può benissimo contenere episodi dilatati, qualche iperbole o banali falsità; non importa ciò che sia stato reale e cosa inventato, importa che il “personaggio Campana” sia stato e sia ancora oggi tratteggiato così. La biografia più veritiera possibile l’ha superbamente scritta Sebastiano Vassalli, fuor di retorica, ma comunque incrociata con la leggenda che contorna il poeta.
Torniamo a Dino e al 1914 e leggenda non è che I Canti Orfici siano sottotitolati in tedesco “la tragedia dell’ultimo dei Germani in Italia” e dedicati a “Guglielmo II imperatore dei Germani”. Ben capite come ciò, mentre tutta la nazione si preparava alla grande guerra contro i tedeschi, potesse apparire; infatti presto la polizia lo arrestò accusandolo di favoreggiamento e propaganda. Dino cercò di spiegare che non c’entrava la politica, ma che l’ultimo dei germani (l’ultimo dei primitivi) fosse lui stesso e che quella dedica volesse richiamare allo spirito “barbaro” della poesia, privo di tutti gli artifici letterari vociandannunziani: richiamava e inneggiava alla forma “assolutamente moderna” del verso libero e all’espressionismo poetico. Perché la poesia di Dino è espressione pura, è la vita, il mondo, le cose, le persone, gli incontri assorbiti, “filtrati” ed espressi dalla sensibilità lucida e visionaria del poeta:
LA CINEPRESA EMOZIONALE
Zoom sull’oceano in burrasca
zoom sulle cime dei monti
zoom sulle cose le genti la vita che scorre
zoom da dietro le finestre
zoom da dentro i tuoi passi
naturalmente vivendo ogni istante centellinando il liquore
da immagini parole effetti clamori volti distratti e distanti
impressionando sensazioni degli occhi della lingua delle mani
traboccate dal cuore macinate dagli acidi della digestione
sul grande lenzuolo di un foglio di carta sgualcito
nel fascio di luce proiettato dall’organo mezz’estinto
connaturato nell’ombelico della cinepresa emozionale
che carpisce traduce ricolora distilla ed offre
i palpiti incessanti dell’indole volubile del mondo
Ma il regio ufficiale che lo interrogava non poteva certo capire le spiegazioni di Dino e ovviamente finì in carcere, una delle tante volte nella propria vita. A farlo uscire, oltre all’intercessione dello zio procuratore e ad una cospicua cauzione, fu il leit motiv della sua travagliata e breve esistenza: la pazzia. Sì perché fin da ragazzo la sua immediata differenza con gli altri, quel carattere scontroso, tutto quel tempo da solo a camminare fra i monti e leggere in lingue strane, ai familiari e agli abitanti di Marradi, borgo contadino dell’alto Mugello, apparvero come chiara manifestazione di un disturbo per il quale, a volte, per un po’ di tempo, necessitava il ricovero in manicomio. Spesso quando dopo una lunga passeggiata fra le sue montagne, nel silenzio e assorto in chissà quali pensieri, tornava e scendeva lungo la stradina che lo riportava a casa, i bambini nascosti dietro i muretti o sugli alberi gli tiravano pietre gridando “arriva el mat”. Chissà a Dino ragazzo che effetto faceva nell’intimo profondo, provate ad immaginare, altro che disturbo, altro che brutto carattere, altro che qualsiasi cosa, un marchio impresso a caldo sulla carne giovane.
Quindi “el mat” di Marradi qualche anno prima del 1914 scende a Firenze con un manoscritto e si reca alla sede de La Voce, pieno di speranze, fiero di sé, della propria poesia e della propria opera: Il Più Lungo Giorno. Lo consegna a Giovanni Papini, deus ex machina dell’editoria letteraria del tempo e Ardengo Soffici, braccio destro di Papini e poeta e pittore stimato da Dino. Avrebbero dovuto leggere il manoscritto e decidere se e come pubblicarlo… e lo lessero anche bene e ne rimasero colpiti, direi fulminati, ma questo Dino non lo saprà mai, perché quel libro apparve a Papini di una grandezza assoluta, una grandezza che avrebbe azzerato tutto il resto e pertanto gli risultò più facile azzerare il manoscritto e semplicemente lo consegnò all’oblio della non pubblicazione. Dino ci tornò molte volte a cercare risposte: se fosse stato letto, se fosse piaciuto, se fosse ritenuto degno e infine se gentilmente gli fosse restituito. Ma nulla, nessuna risposta, nessuna restituzione e il manoscritto sarà ritrovato cinquanta anni dopo a casa di uno dei due vociani dopo la morte, scusate non ricordo quale. Leggenda, in questo caso reale, vorrebbe che la pratica dell’oblio fosse stata portata proprio sino in fondo, per molti anni dopo la morte di Dino, fino all’ultimo, ma senza gettarlo o bruciarlo, noblesse oblige. Ma nel 1914 Dino ruppe gli indugi e decise di riscrive la sua opera e stamparla presso una piccola tipografia di Marradi e anche su questo la leggenda ha ampliamente ricamato raccontando che avrebbe scritto i Canti Orfici ricordando a memoria a distanza di anni il manoscritto rubato/smarrito. Così, ammantati di leggenda, di reitto e di pregiudizio nacquero i Canti Orfici, l’unica opera del poeta che ritengo uno dei pochi grandissimi della letteratura italiana, forse l’unico dopo Dante. Comprendete perché quando si aggirava tra Giubbe Rosse e Paszkowski Dino apparisse scostante e pieno di astio verso quelli che ormai non chiamava più “vociani” ma “voci+ani”, massimi rappresentanti dell’industria del cadavere, ovvero l’editoria (sarebbe facile aprire una polemica sul medesimo e forse ancor peggiore stato attuale della suddetta, ma non lo faccio, almeno in questo articolo, in altra occasione sicuramente, promesso). Ma tant’è che Dino era lì a distribuire, con tutte o senza qualche pagina, il libro e da lì i Canti Orfici sono partiti per la loro strada, molto più lunga di quella del proprio autore, che pochi anni dopo terminerà sulla soglia dell’ultimo manicomio della propria esistenza. Ma ogni circostanza della vita di Dino è sempre al confine della leggenda: c’è stato davvero in Argentina? e a Odessa o sulla nave Odessa? e in carcere in Svizzera? le ha attraversate o no le Alpi a piedi?… la leggenda per certi uomini è un destino!
Qualche lettore potrà pensare: carina la storia, ma che c’entra con il titolo Spazio e Tempo? C’entra c’entra, perché Spazio e Tempo sono le “uniche entità che riconosco”, come afferma il maestro di Dino Walt Whitman. E la poesia di Dino è tutta a dilatare, restringere, deformare, stravolgere queste due entità, corre tutta sul filo si sensazioni/emozioni vorticosamente in equilibrio fra di loro: cinque minuti per andare in America e ritornare, una pagina per descrivere il nuovo mondo, un piccolo episodio dilatato come archetipo di una esistenza, i ricordi che vivono per sempre, la prostituta elevata ad archetipo e tramite fra mondi; il tutto sempre impregnato di quell’espressionismo totale e totalizzante. La “suggestione” apre varchi spazio-temporali, allarga il mondo, anche le pareti di una cella, sino all’infinito. Perché un poeta, un artista non pone la propria opera al centro o al di sopra del mondo: l’opera è un mondo, il suo mondo fatto e finito, poco importa se reale o irreale secondo gli schemi di un altro mondo. I Canti Orfici sono il mondo, una voce che ti guida per mano in uno straordinario viaggio iniziatico, orfico appunto. A chi gli chiedeva: perché orfici? Dino rispondeva: “perché Orfeo è uno che non muore mai”. Come la tua opera Dino, come la poesia, perché dopotutto Orfeo è leggenda che più leggenda non si può, è l’inventore della Poesia e della Musica che con la sua lira e il suo canto può placare mostri e divinità.
IL MAGO (ovvero, l’esorcismo del Tempo e dello Spazio)
Quanto Tempo dovrà passare prima che sia domani
quanto Spazio si dovrà coprire prima che sarà lontano
!?!?!?!?!
nere lignee maschere tragiche appese sui muri
echi smorzati di canti di cori cantilenanti
ritmi serrati di rituali danze propiziatorie
segnali di fumo da remote montagne innevate
simbolici ancestrali graffiti di animali divini
pile impolverate di codici manoscritti
negli esigui vialetti contorti di un labirinto
dov’è il filo? …c’è?
intanto bolle e fuma nella notte il calderone
e il Mago scolpisce sibilline rune nell’aria
(Pelle d’orso / cuor di leone / fame da lupo?)
e il fumo che sale denso dalle grate del metrò
porta il suono lungo di una chitarra distorta
che dacchissaddove vibra la sua voce
e chissaddove condurrà la propria anima
mentre l’antico recinto di un’officina in disuso
si ravviva di un tratto di surreali metallici colori
per brillare nella notte di un inverno padano
come fosse al vernissage di una mostra newyorkese
mille ballerine coreografano la loro eleganza
intrecciando sincrone piroette rallentate
sopra l’acqua ghiacciata della Senna o il Danubio
il Tevere l’Arno il Tamigi il Canale di Suez:
l’acqua l’aria… i suoni i colori…
soffocati spenti / osannanti sfavillanti
scosse elettriche che passano da traliccio a traliccio
sui cavi scoperti dei sensi umani
stanchi o inebriati / grigi o visionari
drogati dal Tempo / vezzeggiati dallo Spazio
in mezzo a coltri di nubi che celano tutto
squarciate da accecanti rasoiate che ricreano tutto
ammalianti bellissime… chimere
P.S.: …e la chimera è l’illusione peggiore, come quella di essere realmente compresi… mi duole leggere su molte antologie, storie letterarie, pure su wikipedia, il nome di Dino Campana nell’elenco dei “poeti vociani”, mi duole tantissimo, o esimi accademici, non tanto perché dimostrate di non aver capito un c…. dei Canti Orfici, fatti vostri, ma soprattutto perché Dino lo avrebbe preso come il più grande insulto possibile… e non è questione di brutto carattere ma di sostanza!
i Canti Orfici http://www.intratext.com/X/ITA1837.HTM
un film d’autore su Dino Campana https://www.youtube.com/watch?v=azyiRxa_EZ8
Renato Barletti ©2016
Potete seguire Renato ogni domenica in “Suggestioni e percorsi poetici”