(N.1 al mondo su 313.000 entries con la rubrIca “Suggestioni e percorsi poetici” come potete verificare qui – 20/6/16 – 12.13 cet) (pubblicato nel contesto di “Art & Culture” N.1 su 60.700.000 come potete verificare clickando qui 14-5-16 CET 5.00)
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Ci sono alcuni momenti, nelle vicende degli individui o dei gruppi, che sono unici, rappresentativi della propria natura e identificativi di se stessi. Momenti che si immortalano da soli e si stampano indelebili sulle personalità sintetizzandone alla perfezione la natura, il senso, la prospettiva.
Quella domenica sera di novembre con l’aria ancora tiepida del mite autunno rivierasco per quei ragazzi, che da diversi anni lustravano gli scalini di granito della cattedrale con il sedere e con le toppe ovali che le loro madri cucivano sopra i jeans consumati sulle chiappe, era giunto quel momento. Il momento più significativo delle loro vite, perlomeno di quella tranche della vita che trascorrevano insieme, e su quei gradini in quella piazza ne trascorrevano parecchia, praticamente tutto il giorno tutti i giorni tutto l’anno. Chissà se qualcuno di loro ne avesse afferrato il senso profondo in diretta mentre accadeva, ma una cosa è certa: consciamente o inconsciamente un inconsueto silenzio regnava fra la chiesa, il battistero e le case antiche.Per l’unica volta forse in tutti quegli anni nessuno parlava, cantava, calciava un pallone o impennava un motorino, solo spettatori intorno a un set improvvisato in mezzo alla strada.
Ma facciamo un passo indietro e facciamo conoscenza con l’attore protagonista, il mattatore della scena, il “doppio” di ognuno di loro e di tutti quanti insieme: Rocco Dineau. Come se uno così si potesse davvero conoscere… al massimo intravedere o intuire. E Roccodinò si era intravisto per la prima volta l’estate scorsa, solo un paio di giorni tanto per lasciare una vaga ma forte idea di sé: eterea e fumosa come la lingua che parlava. Parlava infatti un miscuglio di lessici senza nessuna grammatica che li tenesse insieme, sulla base del francese c’era dello spagnolo e un po’ di italiano e poi una miriade di parole sparse, alcune ebraiche, ma la maggior parte probabilmente inventate o sintetizzate nella sua mente. Un paio di giorni e via, sparì, ma si parlò per mesi di lui. Si era aggirato fra la chiesa e i banchi del mercato con quell’aspetto alla Charlot, un po’ più alto e più magro con la testa a punta e il basco al posto della bombetta, per il resto vestito più o meno come lui però con tutto di almeno un paio di taglie più piccole. Ovviamente era senza una lira, ma dalla chiesa e i banchi del mercato usciva sempre con una mazzetta non indifferente di banconote che teneva sulla testa sotto il basco, lire, franchi, marchi, qualche dollaro. Non abbiamo mai capito se chiedesse l’elemosina o se rubasse o probabilmente faceva entrambe le cose o una sintesi di esse, un po’ come per le lingue, fatto sta che sotto il basco aveva più soldi di quanti ce ne fossero nelle tasche di tutti noi messi insieme.
Inchino baciamano: “Magnifica, an plu finita, es myvida, craterlokoghidertrubiar, faireammour?” A ragazze, signore, donne anziane e nessuna scappo mai, nessuna ritirò la mano, sembrava un intrattenimento pubblico, come fosseuno di quei mimi che oggi popolano le vie del centro, ma lui molti anni prima, senza trucco, senza permesso, senza copione, mobile e parlante con il vestito ristretto di Charlot. Con Roccodinò non si interloquiva, non si interagiva, si guardava e basta, si ammirava e si ascoltava cercando di capirci qualcosa. Faceva l’effetto di uno di quegli spettacoli di avanguardia di quegli anni, si guardava e poi bisognava ripensarci su per afferrare qualche senso, ma se lo spettacolo era bello ti rapiva l’occhio e lo guardavi con il fiato sospeso. E noi, che amavamo quegli spettacoli e ne ideavamo di carini, quell’effetto non riuscivamo a sortirlo, lui sì senza cercarlo, solo vivendo. Altro che Kingo e Pano che continuavano a menarcela con la scena del tergicristallo!
Trovò una bomboletta spray di colore nero, si guardò intorno e si inginocchiò in mezzo alla gente in mezzo alla strada, ci avvicinammo per vedere cosa facesse, stava scrivendo o disegnando qualcosa… poi si alzò e andò via tra la folla in mezzo ai banchi del mercato, scomparve sotto il tunnel fra la chiesa e la sacrestia. Per terra davanti ai nostri gradini rimasero grossolanamente disegnati un cuore trafitto da una freccia e una figa e sul muro di fronte, una firma: “Rocco DineauJuiff”. Come una lampo, sfiorò le nostre vite, colpì la nostra fantasia e si dileguò. Si parlò molto di lui nei mesi successivi: “sarà scappato dalla Legione Straniera” “è un evaso della Cayenne” “è ebreo è venuto via da Israele per la guerra” “magari è un profugo palestinese” “è la reincarnazione di Salvatore del Nome della Rosa” “non esiste, ce lo siamo immaginato” e via dicendo, ipotesi e discussioni.
Allo stesso modo ricomparve salendo da sotto il tunnel una sera verso la fine di ottobre, uguale a quando era scomparso mesi prima, stessi vestiti, stesso basco, stessa faccia, qualche metro dietro di lui uno strano figuro, alto magro magro ciondolante. Ecco quello era il suo opposto, non attirava l’attenzione, non faceva nulla, non ha mai parlato (alcuni dicevano che era muto), rimaneva solo lì nei pressi di Roccodinò e non diceva e non faceva nulla. Era brutto, proprio brutto e noi eravamo bravi a distinguere il “brutto” nella gente e appena ne scovavamo qualche particolarenasceva una canzone, una vignetta, uno sfottò, un tormentone da etichettarci quella persona. Ma lui lo era oggettivamente: guardato di profilo aveva la faccia che sembrava una di quelle caricature della mezzaluna con la pipa in bocca, la fronte e il mento prominenti con il resto del viso in un concavo quasi senza naso, e infatti Mezzaluna diventò il suo nome, anche perché lui non disse mai come si chiamava, stava soltanto nei pressi di Roccodinòe non diceva e non faceva nulla, come un antico scudiero. Roccodineau tornò come non fosse mai partito, come non fosse mai nemmeno venuto l’altra volta, come ci fosse sempre stato, come una sintesi delle fantasie di quei ragazzi, come un corollario alle loro aspettative sul mondo, come uno di loro. Quando c’era c’era, quando non c’era se ne parlava molto.
Quella domenica sera di novembre non volava una mosca in Piazza S. Siro, tutti quei ragazzi ai lati della strada sul bordo del set improvvisato mentre Rocconideau, qualche metro davanti al tunnel si toglieva il mantello e lo porgeva a scudiero Mezzaluna che si ritraeva indietro mischiandosi agli altri. Di fronte, orgoglioso e trasandato come sempre, Ringo, del quale non c’è bisogno di descrivere nulla perché in fondo un vecchio di una quarantina di anni che vestiva estate e inverno con bermuda, camicia a quadri, panciotto, cappello da cow boy e cinturone che si faceva chiamare Ringo ce n’era almeno uno in ogni piazza, in ogni luogo di ritrovo. Ringo era molto esperto di duelli, si capiva subito che era uno dal grilletto facile e veloce di mano e di testa, le gambe leggermente allargate, le mani sui fianchi, il cappello di trequarti, piazzato a favore di vento. Roccodinò era un uomo per tutte le situazione e faceva la sua figura anche nel West, in fondo chissà quante ne aveva viste nella Legione Straniera o alla Cayenne o in Palestina o ad Hollywood, e quante ne aveva dovuto affrontare a mani nude o con lame o pistole immaginarie. Tutto intorno non parlava nessuno, non si muoveva nessuno, la scena rapiva l’attenzione di tutti.
Ringo lanciò il suo urlo: “equinboys”.Roccodineausolo gesti, inequivocabili di sfida, l’indice teso tipo zio Sam, come Apollo Creed che scimmiottava lo zio Sam, molti anni prima di Apollo Creed. Con nonchalance sciogliendo i muscoli del collo per essere pronto alla sfida. Ringo lo guardava con la schiuma alla bocca e incominciò a ripetere lo stesso gesto, ma rivolto verso di noi, verso quelle facce che vedeva tutti i giorni e come lo zio Sam, Apollo Creed e Roccodinò puntava il dito, aggiungendo di suo: “equinboys”. Anche Rocconideauincominciò a ripeterlo e, con ampi gesti come un direttore d’orchestra o Maradona prima di un rigore decisivo, invitò il pubblico a partecipare: “equinboys”“equinboys”“equinboys”, tutti quanti in coro. Tutti coinvolti nella scena madre, comparse nel duello finale; così in coro, per un paio di minuti. Fino a che Roccodineau fece un salto e intimò di smettere: “sccchhh!”. Tornò quel silenzio tombale e surreale e solo gli occhi di tutti partecipavano alla scena. Non parlava più nessuno, nessuno faceva nulla se non guardare, nessuno fumava o pensava ad altro. I due sfidanti in mezzo, tutti noi dai lati, io ero appoggiato all’angolo del battistero, proprio davanti a me di profilo Roccodinò e dietro di lui sulle pietre romaniche della chiesa in grande e in rosso la scritta: “non bastano le galere a tenerci chiusi”. E forse quella sera non apparve neppure troppo una barbarie che fosse stata scritta proprio su quelle pietre. Nulla poteva infatti impedire lo svolgimento del duello, non lo potevano gli umani, non lo potevano le macchine, che ovviamente casualmente non passarono durante quel lungo preambolo, e nemmeno i piccioni che si limitavano a svolazzare da un cornicione all’altro forse increduli o forse smarriti. C’eravamo tutti disposti a casaccio, ricordo sull’angolo alla sinistra di Ringo i “devastatori”, c’erano pure loro, beh in fondo era domenica e tutti i benzinai restavano chiusi, quindi poco “lavoro” in giro. Ecco, se anche loro stavano lì tranquilli e in silenzio a vivere la scena, la solennità e l’unicità del momento si palesavano da sé. Perché loro tranquilli non lo erano mai, per quei sette o otto ragazzi una rissa, un casino, un colpo c’erano sempre da fare e nulla li distoglieva dal tenere costantemente fede a quel nomignolo che li descriveva proprio bene, distruggevano, rompevano, metaforicamente e no, sempre ma non stasera. Stasera non avevano niente da devastare, ma nessun altro aveva nient’altro da fare. I duellanti di fronte, silenzio solenne, sguardi fissi, mani pronte sui fianchi, uno con il cinturone e l’altro senza, ma non importa va bene lo stesso. Dal lato di là, messi a semicerchio nella penombra, con la mano destra all’orecchio, un gruppettino iniziò, a cappella con le bocche semichiuse,una musica di sottofondo da film di Sergio Leone: “scionscion”“scionscion”“scionscion”, senza esagerare, senza dissacrare il momento. I duellanti immobili si studiavano, si guardavano, si provocavano con lo sguardo o con impercettibili gesti che i loro occhi coglievano e rispedivano al mittente, pronti a estrarre per primi e a… fare bang bang, ma ecco che…
dall’angolo destro della facciata, alle spalle di Ringo, balza silenzioso seppur nelle sue tipiche movenze scimmiesche Ufo Robot: “oooohhh” collettivo di stupore. Ringo non capisce cosa stia accadendo, ma Ufo da dietro gli toglie il cappello da cow boy e lo lancia in aria in mezzo alla piazza, Ringo diventa una furia e incomincia a sparargli e a sparare all’impazzata verso tutti, verso il cielo. Ufo crivellato di colpi stramazza al suolo dando l’unica gioia della giornata a Ringo che raccoglie il cappello da terra e si allontana nello starnazzare di piccioni con le mani appoggiate al cinturone. Rocconideau: “hei Ringo”, Ringo si gira, Rocconideau: “bang bang” “touémuertutosnirg!”…ma Ringo non sta più al gioco, si sente usurpato e sbeffeggiato e continua ad andarsene.
Allora Roccodineau riprende con gesti ancora più plateali: “equinboys” “equinboys”“equinboys” e tutti insieme: “equinboys” “equinboys”“equinboys”. Forse era quello il trofeo in palio, forse da oggi “equinboys” sarebbe appartenuto a lui, in fondo ne aveva conquistato i diritti sul campo. Roccodineau rimasto solo in scena, come un vero mattatore che la domina, la dirige, ammicca agli astanti, si diresse verso il cadavere di Ufo e lo invitò ad alzarsi facendogli fare un inchino, ah ah Ufo che faceva un inchino a un pubblico, Ufo Robot che per davvero parlava e si muoveva come Salvatore del Nome della Rosa. E loro due si intendevano in quelle nonlingue che parlavano o forse bastava loro uno sguardo per intendersi: l’aiutante magico aveva aiutato l’eroe a uccidere il drago sputafuoco.
Solo un leggero vento che sollevava la polvere e spostava le cartacce da terra, con i cantori a cappella che continuavano “scionscion”“scionscion”“scionscion”, solo la luce giallognola delle lampadine a pera sui cavi tesi fra la chiesa e il battistero, solo il senso fiero dell’esserci stato in ognuno… mentre Rocconineau imboccava il tunnel e qualche metro dietro Mezzaluna, che era arrivato con lui e non aveva fatto nulla e non aveva detto nulla e se ne andava con lui.
Ma di Roccodinòcontinuò a parlarsene molto, per molto tempo, per tutto il tempo che quei ragazzi rimasero ancora lì sugli scalini della cattedrale… fino a che un altro drago sputafuoco non li disperse nel mondo, senza set, senza scene madri, senza cantori a cappella, soltanto con un soffio di fuoco… soprattutto senza un Rocco Dineu che li difendesse dai bang bang immaginari e non.