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(pubblicato nel contesto di “Art & Culture” N.1 su 60.700.000
come potete verificare clickando qui 14-5-16 CET 5.00
ed in “Anime di Carta” N.1 su 1.140 siti come potete verificare qui )
…(clickando qui potete leggere l’ episodio 12) …
…. Bentornati alla parentesi lettura dell’anima di carta de “Il giardino Viola”.
La lettera che ha dato spunto alla storia, maturando riflessioni importanti è terminata, ma il suo spirito intenso continua a lavorare dentro a Viola, sempre più intenzionata a dare un senso alla sua vita. Bene vi lascio in sua compagnia e come al solito vi auguro una buona lettura…
Di fronte a lei i fogli pinzati si alzavano colpiti dal vento. Lo zaino riposava mostrando all’interno la fedele macchina fotografica ed il pranzo. Valeva la pena che il viaggio non fosse stato inutile. Prese in mano l’amica e cominciò a inquadrare ovunque alla ricerca di un’idea. Lo zaino era quanto di più anacronistico ci fosse, insieme ai fogli che sapevano troppo di umano. Li fotografò ignara del motivo. Poi guardò in lontananza. A parte la poiana non una forma animale. Anche il bosco si era sfoltito tanto da essere completamente spopolato? Forse i pochi animali sentivano il suo odore e si rintanavano. Peccato. Lo spettacolo di una creatura selvatica nel suo ambiente era quanto di meglio potesse concludere la bella cornice intorno. Tornò alla roccia e si accovacciò vicino allo zaino per consumare il pranzo al sacco. A memoria sua ad ogni escursione con il padre era consuetudine mangiare carne in scatola, con pane e formaggio di contorno. Le diceva che non c’era di meglio. Veloce, pratico e ricostituente. La gelatina morbida e fresca, la carne gustosa e in effetti nel pane con il formaggio d’alpe aveva il suo perché. Papà, papà. Con lui di certo non sarebbe mancato il bicchiere di vino rosso nel fiasco in alluminio. Averlo assaggiato fin da bambina l’aveva condizionata a non diventarne una grande consumatrice. Il gusto era davvero troppo forte per il suo palato, ma per non far torto al papà… Invece la cioccolata con la mela era una sua specifica fissazione. Idratava, energizzava e ci stava una meraviglia.
A pranzo finito Viola decise di proseguire il sentiero che continuava nel bosco. Era arrivata fin lì dopo anni, valeva la pena andare oltre. Macchina fotografica alla mano, speranzosa, si inoltrò nel folto imbattendosi nelle basse frasche di larice. Più entrava nel bosco più l’aria si rinfrescava e profumava di mille aromi. Sentiva distintamente le foglie secche ai suoi piedi emanare un odore acre. La terra umida per la rugiada della notte era la nota frizzantina. Poi un misto di funghi e muffa. Impagabile ciò che il naso riusciva a captare, aiutato da occhi e memoria era meglio di un computer. Esattamente non ricordava che ci fosse un fiumiciattolo a quel punto, ma forse solo lei.
In fila c’erano ben tre caprioli che si abbeveravano al piccolo corso d’acqua. Silenziosamente Viola zummò per avvicinarsi di pochi centimetri al muso degli animali. Erano splendidi. Innocenti. Pareva di vedere Bambi, ma senza macchie. Erano esemplari giovani. Probabilmente femmine perché privi di corna. Il pelo di un colore bruno rossiccio. Scattò, scattò e scattò, finché forse si accorsero di lei. L’odore. Rumori non ne aveva fatti. Sollevarono i loro musi teneri e affilati. Occhi grandi e profondi si concentrarono nella sua direzione. In un lampo si girarono sugli zoccoli e più rapidi di un soffio ad un salto alla volta scomparvero alla sua vista. Così d’incanto come erano apparsi di fronte a lei, si erano dissolti nell’ambiente lasciandola testimone solitaria.
La natura le aveva fatto un regalo, meglio di un safari a comando per guardare leoni e tigri. Qui l’inaspettato incontro era frutto del caso. Loro avevano sete e lei passava di lì. Coincidenze dal sapore sibillino che una volta aveva letto si chiamavano luccicanze. Tentò oltre di aver fortuna, ma non ci furono altri incontri. Solo alberi, cespugli, rovi. In estate sarebbero stati ricchi di more, fragoline succulente, fiori selvatici. Ora la natura si stava richiudendo per prepararsi all’inverno. Si accorse che cominciava a far freddo. Non era il caso di farsi prendere dal buio della notte.
Un po’ delusa fece dietro front e ripercorse a ritroso tutto il percorso. Il ritorno era sempre più veloce. Vuoi la perdita di interesse a fermarti di continuo, vuoi la necessità di terminare la gita, anche le gambe cominciavano a farsi sentire. Più che altro i piedi. Gli scarponi non erano stati molto clementi. Pagava i dieci anni di inutilizzo. Giunta alla pietra di partenza decise di accorciare la distanza prendendo un altro sentiero. Scendeva ripido direttamente in paese tagliando il pendio. Da bambina lo faceva correndo, saltando e rotolando. Quei tempi erano finiti. Con passo sicuro, ma tranquillo iniziò a scendere. Ogni tanto ci stava bene un saltino, per scansare le pietre cadute dai muri non più risistemati. Suo padre le raccontava che un tempo tutto quel versante era coltivato e tenuto come un fazzoletto. Ora nemmeno lo si sarebbe potuto credere, figuriamoci immaginare. Il tempo e la trascuratezza avevano cambiato il volto del panorama, restituendo alla natura la chiave di proprietà. Senza troppa fatica era arrivata alla prima casa. Partendo dall’alto. La peculiarità del paese era proprio la sua estensione in altezza, dalla prima all’ultima abitazione c’era un dislivello di ben 300 metri. Al termine della scarpinata l’attendeva ancora immutata la fontana. Da lei sgorgava un’acqua pura freschissima. Ricca di sapore e gusto come se racchiudesse tutti i minerali presenti sulla tavola degli elementi. Era in assoluto un ristoro per lo spirito.
Ogni cosa la riportava alla sua infanzia. Ciò che era cambiato nel tempo, restava comunque lì dove lo aveva lasciato. Tutto la faceva sentire meravigliosamente a casa e soprattutto la benvenuta.
Durante il lento rientro al nido, scrutò in ogni angolo. Muri scrostati, finestre chiuse, orti spogli. Solo il silenzio girava imperioso, rendendola triste. Non vedeva l’ora di tornare a casa, avrebbe immediatamente telefonato alla mamma per il disperato desiderio di sentire una voce umana. Svoltato l’ultimo angolo si accorse che di fronte all’uscio era seduta una figura. Non aspettava nessuno. Nessuno a parte la sua famiglia sapeva che era lì. Chi poteva essere? Le arrivava un suono leggero e pacato. Un suono che le richiamava alla memoria strani ricordi.
Si fermò di colpo per ragionare sul da farsi. Richiamare il ricordo che le trasmetteva quella musica, affrontare il fatto che un estraneo era davanti alla porta di casa sua. In un battito le fu molto chiaro. Un nome le salì alle labbra chiamato dalla memoria.
< Mat! > urlò con tutto il fiato che aveva. La figura smise di suonare, alzandosi in piedi si mostrò per intero confermando l’urlo.
< Hola guapa chica, bienvenida. > Il tono canzonatorio volutamente rimarcava il luogo che li aveva allontanati.
< Mat! Che ci fai qui, che bello rivederti! > Lo investì tuffandosi tra le sue braccia. Erano solo domande di routine, in realtà non le interessava il motivo, era felice di quella inaspettata sorpresa.
< Bé dieci anni sono abbastanza come ragione per aver voglia di rivederti? > in realtà non era passato così tanto tempo, perché all’expo si erano incontrati e anche alla mostra di Walter, ma sempre un mordi e fuggi senza troppo valore.
< Direi di sì > guardandolo negli occhi gli lesse la gioia che anche lei provava. Sprofondata in quel mare di verde intenso si perse per un attimo smarrita.
< Sei sempre la stessa. Arrivi dalla Cina e senza far sapere a nessuno che sei in zona te ne fuggi di nuovo. Fortuna che stavolta tua madre ci ha messo lo zampino.> sorridendo sornione le lasciò intendere come erano andate le cose.
Nadia Banaudi ©2016