(N.1 al mondo su 313.000 entries con la rubrIca “Suggestioni e percorsi poetici” come potete verificare qui – 20/6/16 – 12.13 cet) (pubblicato nel contesto di “Art & Culture” N.1 su 60.700.000 come potete verificare clickando qui 14-5-16 CET 5.00)
————————————
traduttore /translator friendly: please click here to find and install
————————————————————–
Il mio primo giorno all’Università… era una mattina grigia e piovosa di un novembre genovese e il mio amico Enzo, che faceva un’altra facoltà ma era già al secondo anno e conosceva bene i dedali di istituti e dipartimenti sparsi negli antichi palazzi signorili:
“ti accompagno io alla lezione, così ti faccio vedere e poi resto, tanto lo merita, non ho mai ascoltato Dodò dal vivo.” Poi vedendo il mio viso che manifestava incomprensione “Dodò, come il figlio della Loren!” Con la mia faccia sempre con la smorfia un po’ tonta di chi non comprende e certe cose non sono mai stato tanto perspicace ad afferrarle al volo. Poi sinceramente avevo già sentito parlare del professore, ma più di tanto non lo conoscevo, solo di nome come tutti e non sospettavo il confidenziale Dodò. “Ma no dai non lo chiama nessuno Dodò, l’ho detto io per ridere.” “Ah! adesso ho capito.” Un po’ tonto sì, ma anche un po’ emozionato per quel primo giorno di lezione, tanto agognato, atteso e sudato. Era arrivato.
Quel giorno iniziava il corso di Letteratura Italiana del Professor Edoardo Sanguineti.
Nel mio immaginario figuravo aule ad anfiteatro con molti posti per molti studenti e uditori, soprattutto per le lezioni del più illustre docente dell’Ateneo, invecemi ritrovai sulla soglia di un’aula angusta, una specie di mezzanino, con le poche sedie tutte occupate per lo più ognuna da due persone e già diversi studenti seduti sul secolare pavimento a mosaico di granito. Ci sedemmo per terra anche noi mentre continuava ad arrivare gente, arrivava e pressava per entrare, sedersi in terra o rimanere in piedi, in fondo all’aula e fuori nel corridoio del pianerottolo. Non capivo, più che a una lezione universitaria mi parevadi essere ad uno dei tanti collettivi improvvisati su “qualcosa” che spesso si facevano in quegli anni. Con gli occhiali appannati e l’ombrello della ragazza in piedi alle mie spalle che mi sgocciolava sul collo, di quelle che ti giri per dirle qualcosa, la vedi e non riesci a dirle nulla e arrivava altra gente nel brusio di sottofondoin un’aula già colma di studenti pigiati a ridosso l’uno dell’altro. Entrò il Professore si sedette fra i suoi due assistenti e:
“oggi parliamo del cominciamento” accendendosi la prima di molte sigarette; il brusio cessò di colpo e ognuno rimase due ore indissolubilmente legato a quel filo di parole che spaziava nell’infinito della letteratura.Il cominciamento non è l’inizio ma… insomma ci vorrebbe lui a spiegarlo cosa è. Faceva lezione fumando una dopo l’altra sigarettacce italiane, mi pare Alfa o Nazionali Esportazioni, accendendo la prossima con il mozzicone della precedente e così via, ma a nessuno dava fastidio. Poi ci fu la seconda lezione, la terza, ecc. e l’aula ogni volta si svuotava un po’ e incominciarono a non esserci più studenti seduti sul granito e poi addirittura sedie vuote, sino a che non rimanemmo una decina scarsa, sempre gli stessi. Mi chiesi il perché di quel fuggi fuggi, ma non trovai una spiegazione.Con il senno di poi me la sono data: non voleva studenti interessati all’esame, voleva solo studenti interessati alla letteratura, interessati e innamorati della letteratura, altrimenti non resistevi. Tutto sembrava spingere verso questo tipo di selezione: il mezzanino, la ressa, il fumo, le lunghissime lezioni (sì minimo due ore mezzo contro quelle “normali” di quarantacinque minuti), ma soprattutto modalità e termini dell’esame. Fuggi fuggi per lo più. L’esame non era un esame, ma la realizzazione di quella che lui chiamava “tesina” (sì sì proprio “ina”!!!). Partendo dal corso che teneva, ogni studente dovevascegliere un argomento sul quale impostare e sviluppare il lavoro. Il corso di quel 1984-85 era sui romanzi della Scapigliatura, la mia Scapigliatura, che diventerà da lì la parte preferita della letteratura italiana. Per farla breve mi ritrovai a fare la tesina su “Il romanzo dell’artista nella letteratura italiana del secondo Ottocento”, ovvero trasportato pari pari nella nostra il titolo della tesi di laurea di Herbert Marcuse sulla letteratura tedesca a cavallo di Settecento e Ottocento, io studente al primissimo approccio universitario. Ma non bastava, perché Marcuse aveva incentrato il lavoro principalmente sul rapporto letteratura/società e per darmi anche l’aspetto più artistico mi disse di leggere i libri che Jean Starobinki aveva dedicato alla figura dell’artista. In sintesi: un paio di centinaia di libri letti, oltre cento pagine scritte fitte fitte senza margini con il primo pc e la stampante ad aghi, oltre un anno di lavoro, anche perché andateli a cercare certi romanzi pressoché sconosciuti. Mai studiato così tanto, molto di più che per la tesi vera, forse più che in tutto il resto dell’Università. Capito il perché della selezione e il conseguente fuggi fuggi? Bisognava avere una passione profonda per la Letteratura, punto e basta, altrimenti te ne andavi; e lui voleva questo. Gli interessava molto relativamente insegnare “qualcosa” in particolare, voleva che tu fossi in grado di leggere qualsiasi testo di letteratura, e non solo, potendolo comprendere e ragionarci sopra. Ecco la chiave di lettura del Professor Sanguineti, e io che al Liceo avevo una Professoressa che chiedeva il libro di testo a memoria e io ovviamente non gli e lo recitavo e… Insomma sembrava che la soglia di quel mezzanino fosse il portale fra due mondi.
Ma oltre al Professore, c’era il poeta, il romanziere, il librettista di Luciano Berio, l’artista a tutto tondo, l’avanguardista, ma di questo aspetto durante le lezioni non se ne parlava, se ne potevano però cogliere a volte delle sfumature. Perché l’artista non è mai avulso dal mondo che lo circonda, ma da ogni aspetto della vita rimane contaminato e lo contamina a sua volta. Se non avessi conosciuto Edoardo Sanguineti difficilmente avrei compreso che il verso più importante della letteratura di ogni epoca é:
“ilfautetreabsolutement moderne”
di Arthur Rimbaud, e lo leggevo da anni, ma da solo non lo colsi, non avrei potuto coglierlo. Ecco perché lo chiamo Maestro, che è infinitamente molto più di Professore(“Lo mio Maestro a me…”). Può apparire spocchiosa un’affermazione così assoluta, ma non c’è altra certezza che io abbia nella vita più chiara di questa. L’urgenza, il dovere di far vivere la Poesia nella contemporaneità è la condicio sine qua non della sua esistenza, della nostra esistenza. Quel verso ha tracciato una linea di confine indelebile, al di qua del quale ha senso scrivere e al di là del quale scrivere non è altro che citazione. Per Rimbaud, poco più che ventenne, quel verso di “Adieu” in Le BateauIvre (Addio nell’ultima opera Il Battello Ubriaco) rappresenta il congedodalla Poesia e lui il proprio bisogno di modernità andrà a cercarselo in giro per il mondo. Ma si può essere poeti e far vivere ancora questa utopia chiamata Poesia? Punto di domanda, ma per me invece è un’affermazione, tanto che ho riscritto l’adieu di Rimbaud rovesciandone le conclusioni, ma non devo parlare di me, viziaccio da egocentrico incallito…
Edoardo Sanguineti un secolo dopo Rimbaud:
Occhiali
Mi sono riadattato agli occhiali (che la patente, a me, rende obbligati ormai), in un paio solo di giorni vedo tutto più netto: (ma niente mi è, per questo, diventato migliore, in verità: un semaforo è sempre un semaforo, un marciapiede è un marciapiede: e io sono sempre io, così) (quanto al doloroso senso di capogiro, vaticinato, con l’emicrania, da un Istituto Ottico di corso Buenos Aires, al quale mi sono rivolto, questa volta, l’ho sperimentato e l’ho superato):
(l’oculista affermava che, con il tempo, io mi ero costruito una mia rappresentazione arbitraria
della realtà, adesso destinata, con le lenti, a sfasciarsi di colpo):
e ho potuto sperare, per un attimo, di potermi rifare, a poco prezzo, una vita e una vista)
La questione è come si guarda il mondo, come lo si percepisce e quale raffigurazione se ne vuole dare. La forma, che in poesia èil linguaggio,è veicolo, ma non soltanto: in arte la forma è contenuto. Quale “sostanza” può esserci dentro una forma trita e ritrita? Quale mondo può raccontare? Un mondo lontano, forse facile da descrivere e comprendere, un mondo avulso dal mondo, un mondo meramente intellettuale, un mondo di ricordi, un mondo imparato a … (continua il prossimo sabato)
Renato Barletti ©2016
Potete seguire Renato ogni domenica in “Suggestioni e percorsi poetici”