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(pubblicato nel contesto di “Art & Culture” N.1 su 60.700.000 come potete verificare clickando qui 14-5-16 CET 5.00) (la rubrica ” I libri! di Massimo ” è la N.3 su 1.910 siti come vedete qui al 2/7/16 alle 9.00)
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La fantascienza italiana non è nota al grande pubblico quanto quella anglofona, ma non per questo è qualitativamente inferiore; al massimo possiamo dire che lo è quantitativamente (sarebbe interessante interrogarci sul perché). A parte le incursioni nel genere di autori noti per altri motivi (Emilio Salgari, Dino Buzzati, Tommaso Landolfi, Italo Calvino…) la produzione italiana è varia e di buon livello: in altri miei articoli ho presentato opere quali l’ “Icosameron” di Giacomo Casanova (pubblicato però in francese, nel 1788), “Gli ultimi sopravvissuti” di Marino Cassini (1984) e i tre romanzi più noti di Virgilio Martini. Proprio a quest’ultimo accosterei un altro grande autore del nostro paese, recentemente scomparso: il romano Massimo Mongai (1950-2016).
Ho scoperto l’autore grazie a Marco Martino, appassionato di Sci-Fi: nel suo esordio letterario, “Memorie di un cuoco d’astronave” (vincitore del Premio Urania nel 1997), il mio amico mi ha segnalato questo romanzo come un buon esempio di fantascienza nostrana. Dovevano passare però diversi anni prima che lo leggessi; ciò non mi impedì comunque di realizzare, insieme al mio amico, un’intervista con l’autore romano per la mia rivista Segreti di Pulcinella nel dicembre 20081. Dimenticai l’autore negli anni seguenti finché non venni a sapere della sua dipartita, il 1° novembre 2016. Come spesso accade quando muore uno scrittore, più o meno noto, subito si rinnova l’interesse per le sue opere: così mi feci prestare dal mio amico tutto ciò che possedeva del Mongai, ossia i primi due romanzi che ha pubblicato con Mondadori, in Urania: il già ricordato “Memorie di un cuoco d’astronave” e “Il gioco degli immortali” (1999).
Molte sono le cose che uniscono i due autori italiani – il Mongai e il Martini: entrambi dotati di una fantasia sfrenata unita ad un umorismo eccezionale, la cura dei dettagli e lo stile fuido e accattivante, oltre ad una acuta e profonda osservazione dell’Uomo, con tutti i suoi pregi e soprattutto difetti. Purtroppo entrambi non hanno ricevuto il successo di pubblico e di vendite, oltre che la notorietà, che meritavano. Qui finiscono però le cose in comune: mentre le opere del Martini sono legate tutte alla Terra e alla razza umana, il Mongai spazia su innumerevoli pianeti nella galassia e ci presenta una grandissima varietà di popoli alieni, da quelli umanoidi a quelli più strani e improbabili. Il Martini risente del suo tempo e sotto vari aspetti risulta datato, il Mongai è indubbiamente più moderno e più plausibile dal punto di vista scientifico.
Mettete dunque una comunità interplanetaria, nel XXV secolo, chiamata Agorà, a cui aderiscono milioni di specie aliene che hanno sviluppato la tecnologia; mettete che tra queste grandi ed antichissime civiltà, il cui principale interesse è il commercio, sia stata ammessa anche la razza umana grazie a specialità gastronomiche quali l’aglio. Mettete infine un giovane cuoco umano che, terminati gli studi, decide di lasciare il proprio pianeta per imbarcarsi su un’astronave di lungo percorso come cuoco di bordo: in questa crociera stellare viaggiano specie aliene pacifiche ed intelligenti ma non tutte, come dire, di bell’aspetto (occorre per questo, ai terresti, una sorta di vaccino per non fuggire terrorizzati ogni volta che si trovano davanti uno scarafaggio gigantesco o un talpone lungo due metri) e tutte hanno abitudini alimentari diverse a cui il nostro cuoco deve far fronte. Sull’astronave vige la Prima Direttiva Alimentare che impedisce alle varie specie di mangiarsi tra loro o di cannibalizzarsi; la convivenza non è semplice e qui l’autore introduce uno dei temi portanti del romanzo: in una società del genere la xenofobia è limitata a piccoli gruppi settari che vengono giustamente malvisti e derisi. Se sulla Terra del XXI secolo è ancora presente la piaga del razzismo, nel mondo futuro semplicemente non ci si può permettere. Questa cosa mi è piaciuta molto: basta con gli alieni brutti e cattivi, basta con la paura del diverso; gli abitanti di altri mondi possono essere sì anche mostruosi ed avere abitudini disgustose o crudeli, ma fanno tutti parte di un’unica grande famiglia cosmica che non guarda al colore della pelle, al numero di arti o al fatto che respirino ossigeno o metano2. Secondo me è più di una questione di ingenuo ottimismo dell’autore: se l’Uomo del futuro non supererà questa piaga, che rende ancora barbaro e primitivo il nostro secolo, indipendentemente dal fatto se avrà o meno a che fare con razze aliene sarà destinato all’imbarbarimento e all’estinzione.
Il romanzo è strutturato in vari episodi legati tra loro dalla componente gastronomica: è infatti il geniale cuoco, Rudy “Basilico” Turturro (le origini italiane non sono casuali, secondo me: l’Italia è famosa nel mondo anche per la sua cucina; d’altronde l’autore stesso fu cuoco di bordo, la cosa lo ispirò), a risolvere via via le varie crisi interculturali che si presentano a bordo o sui pianeti dove l’astronave fa scalo. Spesso Rudy finisce nei guai ma ne sa sempre uscire egregiamente grazie alle sue doti culinarie eccezionali, e naturalmente alla sua astuzia e buon senso.
Il cibo, nell’ottica di Rudy (e dell’autore), è spesso legato al sesso: entrambe le componenti hanno un ruolo importante nell’economia dell’opera. Rudy ama la buona tavola e le belle donne, e non disdegna neanche qualche avventura interspecie con aliene umanoidi. Il tutto è giocato sul piano dell’esagerazione e della fantasia più sfrenata, senza mai eccedere il buon gusto, con effetti comici straordinari: non a caso uno dei capitoli-episodi più divertenti si svolge su un Porto Pazzo, una sorta di pianeta bordello dove è possibile perfino migliorare chirurgicamente le proprie prestazioni sessuali (tema che tornerà anche in “Il gioco degli immortali”) per le orge sessuali e culinarie che rischieranno di far uscire di testa il “povero” Rudy alla prima franchigia sul pianeta dei goduriosi, dove tutto è permesso (nei limiti del non danneggiare gli altri).
Ogni capitolo si chiude con una ricetta che contiene spesso qualche ingrediente alieno, tuttavia rimpiazzabile con un corrispondente terrestre. So che durante una presentazione del libro le ricette sono state realmente preparate e servite agli ospiti intervenuti: il buon Mongai, non a caso abbondantemente sovrappeso, era una buona forchetta e sapeva godersi la vita. Il suo stile è sempre allegro e brioso, non scade mai nel drammatico neanche quando descrive incidenti o pericoli mortali. Nel corso del romanzo il protagonista vede crescere il suo prestigio agli occhi del burbero capitano e dei suoi compagni umani e alieni, arrivando perfino a salvare l’intera Agorà grazie ad una ricetta per entità aliene disincarnate.
Dietro la risata ci sono riflessioni serissime sul destino della vita nel Cosmo, sulla tolleranza e sull’epicureismo di questa società intergalattica, armonica e totalmente libera sul piano sessuale. Alla fine non possiamo fare a meno di provare un’istintiva simpatia per il buon Rudy “Basilico” (che finalmente si è conquistato il suo soprannome) e magari invidiarlo un po’ per le sue avventure, le sue mangiate e le sue… condividendo la sua filosofia di “mangiare sempre a gusto proprio”.
Il secondo romanzo, “Il gioco degli immortali”, non è divertente come il primo ma conserva lo stesso spirito scanzonato ed ironico, che è un po’ il marchio di fabbrica del Mongai. L’anonimo protagonista è un uomo comune, un romano che muore in un incidente stradale e si risveglia in una stanza spoglia dove un computer avveneristico soddisfa qualsiasi sua richiesta, tranne fornirgli spiegazioni sul motivo per cui si trova lì. Dopo quindici giorni la stanza scompare e il malcapitato si ritrova su un pianeta alieno simile alla Terra, insieme a tutti gli oggetti che ha “ordinato” al computer (ribattezzato più avanti Genio) che dovrà usare per sopravvivere in una sorta di gioco cosmico diretto da una razza aliena superevoluta quanto misteriosa. Lo stesso scopo del Gioco verrà svelato solo alla fine del romanzo.
Il protagonista scopre che ogni volta che muore viene resuscitato nella stanza di partenza, dove ricomincia il procedimento daccapo. Così, reincarnazione dopo reincarnazione, il nostro eroe affina le sue tecniche di sopravvivenza ed impara a conoscere Mondo – il pianeta alieno su cui si svolge il Gioco – con le sue varie popolazioni umane e umanoidi. Scopre così di non essere l’unico Immortale, l’unica pedina del Gioco, e col suo carattere estremamente “tignoso” e insofferente del fatto di essere manipolato dai misteriosi Giocatori, elabora un piano grandioso per sconfiggere questi ultimi con astuzia, ritorcendo contro di loro la stessa supertecnologia che gli hanno messo a disposizione. Nel frattempo incontrerà uomini e animali tra i più vari, ambienti estremi e civiltà primitive che lo accolgono come un potente leader. Il tentativo di fare evolvere in tempi rapidi i popoli di Mondo, insomma di portare la civiltà del XX secolo (sia tecnologica che culturale) sul pianeta, mi ha fatto ripensare un po’ a “Un americano alla corte di re Artù” (1889) di Mark Twain, non a caso un altro autore umoristico: rispetto all’ingegnoso Hank Morgan, il protagonista del romanzo di Mongai, altrettanto geniale, ha maggiore fortuna e le sue innovazioni attecchiscono, anche se poi non sappiamo fino a che punto.
Alla fine il complesso piano per catturare uno dei Giocatori, i quali amano partecipare al Gioco stesso come osservatori, sotto l’insospettabile forma di scoiattoli, riesce e in uno storico braccio di ferro il piccolo e primitivo terrestre dà filo da torcere al superevoluto ed immortale alieno, riuscendo a convincerlo a non interferire più con la vita degli abitanti di Mondo e soprattutto con la sua, giocando a fare dio, e a concedere agli Immortali ciò che più di ogni cosa desiderano: poter morire definitivamente. Su quest’ultimo desiderio avrei delle riserve: penso che la presunta invidia dei mortali da parte degli “eterni” sia una consolazione letteraria (che spazia da Borges3 a “Highlander”) di chi sa che deve prima o poi morire e che immagina l’immortalità come una condanna ma in fondo la desidererebbe, alla faccia delle religioni che promettono una vita nell’Aldilà. L’immortalità sarebbe una condanna solo per chi non crede che possa esistere la felicità (Leopardi sarebbe d’accordo con Borges4). La paura di morire fa letteralmente impazzire l’eroe mongaiano alla sua seconda rinascita ed è una paura universale: si rinchiude così in una sorta di utero ipertecnologico e superprotetto da cui non uscirà che per decisione dei Giocatori (è impossibile infatti sottrarsi al Gioco). D’altronde l’autore in un altro libro afferma di non credere alle reincarnazioni e che “reincarnarsi di vita in vita all’infinito mi sembra un modo certo per soffrire, ma anche per godere, una serie ininterrotta di vite mi sembra una bella prospettiva.”5
Massimo Acciai Baggiani ©2016
Qui trovate i libri di Massimo
Note
- http://www.segretidipulcinella.it/sdp25/let_05_01.htm
- In fondo gli escrementi alieni puzzano quanto quelli terresti, come sottolinea l’autore in una dotta disquisizione: alla fin dei conti il nostro metabolismo è più o meno lo stesso in tutta la Galassia e le differenze sono soprattutto culturali.
- Nel suo racconto “L’immortale”, contenuto nella raccolta “L’Aleph” (1949), Borges immagina che gli Immortali abbiamo perso qualsiasi interesse alla vita e siano regrediti a livello di trogloditi desiderosi solo di morire.
- Si veda il “Dialogo tra un fisico e un metafisico” nelle “Operette morali” (1827).
- Cfr. Mongai, Massimo, Serendipità. Istruzioni per l’uso, Roma, Robin Edizioni, 2007, pag. 89.
Bibliografia
- Acciai, Massimo, Cibo e fantascienza, apocalissi e ottimismo, in L’area di Broca, n. 88-89, Lug. 2008 – Giu. 2009.
- Borges, Jorge Luis, L’Aleph, Milano, Adelphi, 1998.
- Leopardi, Giacomo, Operette morali, Milano, BUR, 2008.
- Mongai, Massimo, Memorie di un cuoco d’astronave, Urania n.1320, Milano, Mondadori, 1997.
- Mongai, Massimo, Il gioco degli immortali, Urania n.1372, Milano, Mondadori, 1999.
- Mongai, Massimo, Serendipità. Istruzioni per l’uso, Roma, Robin Edizioni, 2007.
- Twain, Mark, Un americano alla corte di re Artù, Casale Monferrato, Marietti, 1992.