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Ho visto Ophelia la prima volta… ero un ragazzo, tredici anni credo… il gomito appoggiato allo scafale della libreria della scuola, di tre quarti, bionda capelli lisci abbastanza lunghi, lineamenti delicati sotto occhiali di tartaruga come andavano di moda allora: il classico coupe de foudre!Ma non si trattava della solita cotta giovanile, ebbi subito la sensazione che quel volto non lo avrei dimenticato per tutta la vita, che sarebbe stato sempre con me, in sua assenza e in sua presenza. Ovviamente sentivo una musica nella testa, ero stralunato e lei se ne accorse immediatamente. Da quel momento iniziò un gioco di sguardi e seduzione, mezze frasi, parole buttate lì, forse allusioni a qualcosa che non capivo troppo bene. Io la seguivo, con lo sguardo e con i passi, provavo a dare un senso alle allusioni, a comprendere quali possibilità ci fossero con lei, ammesso che ne avrei mai potuto avere. Continuò così per mesi, poi un pomeriggio venne a casa mia. Quel giorno aveva capelli neri piuttosto corti, occhiali di metallo dorato a goccia, jeans e una maglietta bianca con il coccodrillo: non disse una parola, si avvicinò e incomincio a baciarmi sull’uscio. La musica era sempre più solenne e di tutti i colori, corni e timpani, strisce di arcobaleno nel corridoio di casa; due ore nella mia cameretta di ragazzo, due ore che potevano sintetizzare tutto il mondo, tutta la vita, due ore che erano davvero tutto. Ma il giorno dopo sparì, non la rividi più per mesi, lunghissimi mesi senza musica né colori, affranto, incredulo, inconsapevole, un’estate senza Ophelia, senza nemmeno sentirne la voce al telefono, senza sapere dove fosse.

Era ormai autunno e girellavo fra i banchi del mercato cercando un paio di jeans quando mi parve di scorgere un po’ più in là di schiena Ophelia, ma non era lei, non poteva essere lei con i capelli ricci castani tendenti al rossiccio, però la figura e il gesticolare mentre guardava e provava dei foulard la ricordavano molto, troppo direi. Mi avvicinai al banco girandogli intorno per guardarla dal davanti: accidenti era lei! Cosa dovrei scrivere, che era bellissima anche riccia e rossa, certo che lo era, bellissima e affascinante come di più non si potrebbe. Mi guardò con un sorriso appena accennato, senza dire nulla, poi si allontanò con uno prendendolo sotto il braccio: agghiacciato, tramortito, esterrefatto. Non mi ha detto nulla, ha solo ammiccato maliziosetta e via, con quel tipo che come minimo avrà avuto venti anni più di me, anche di lei, anche di lei forse. Perché sinceramente non ho mai saputo quanti anni avesse, non so se a scuola fosse una compagna o una professoressa o fosse lì per caso, vabbè, ma con uno così no! Ferito e deluso passai quasi tutto l’inverno a cercare di dimenticarla, cosa difficile ma ci misi molto impegno fra partitelle a pallone, pomeriggi al luna park con gli amici, giri in bicicletta e tante altre cose normali per un ragazzo della mia età. Però una sera, mentre guardavo con i miei ilfestival di Sanremo, Pippobaudo invitò la madrina della serata a premiare un “artista” che aveva cantato una canzone orecchiabile con il ritornello che suonava più o meno così: “ti regalo questo fiore, come pegno del mio amore, che mi batte forte in cuore”. Non ci crederete, come non potevo crederci io quella sera, ma la madrina era Ophelia, sì proprio lei con un vestito lungo nero con i pizzi e gli strass, capelli lunghi e cotonati castani molto chiari, senza occhiali. C’era Ophelia in tv! Abitando a meno di un chilometro da dove era la diretta, avevo una sola cosa da fare: vestirmi e andare, andare in mezzo a quel casino di gente e cercarla, tanto prima o poi sarebbe uscita dal teatro.Uscì in mezzo alla folla e ai flash dei paparazzi, sorrideva e dispensava sorrisi e baci, mi era parsa felice come forse mai l’avevo vista e decisi di eclissarmi per non sciuparle quel momento, me ne andai senza fami vedere. Feci un giro largo per tornare a casa e passai dalla piazza a vedere se c’era ancora qualcuno, ma era deserta con solo le tante finestre dietro le quali si vedeva o intuiva un televisore acceso per il Festival. Anche lungo la strada non incontrai nessuno, qualche nota nell’aria, qualche luce sui palazzi, qualche soffio di vento gelido, molti pensieri e molte ipotesi in testa. Per arrivare a casa mia c’era una scorciatoia, una lunga scalinata appesa fra due strade parallele ma sfalzate in altitudine, la presi. Nel buio della scalinata intravidi in lontananza la sagoma di una persona seduta sui gradini: era Ophelia! Ophelia con il vestito nero con i pizzi e gli strass, i tacchi alti e una gamba scoperta, gli occhi fissi verso il basso, verso me che stavo salendo sempre meno lentamente: “vieni, amami un po’, come solo tu sai fare”. Non disse più altro, mi abbracciò, mi bacio e… altre due ore che potevano sintetizzare il mondo… poi andò via scendendo la scalinata un po’ barcollante sopraquei tacchi con il suo vestito nero con i pizzi e gli strass adesso un po’ stropicciato.

Negli ultimi, circa, quarant’anni ci siamo visti diverse volte, sempre in maniera casuale, casuale almeno per me, magari una sera sentivo bussare alla porta, o mi arrivava una telefonata, ultimamente usa whatsapp. Ogni volta ho vissuto le due ore più belle della vita e ogni volta sono state più belle di quelle precedenti, poi a volte un piccolo saluto, a volte nemmeno quello e via a chissàquando, forse. Certe volte sono passati anni, a tratti non ho pensato a lei; in certi periodi ho fatto di tutto per dimenticarmi di lei, a volte ho proprio creduto di essermela dimenticata. Ma poi tornava a cercarmi e vivevo con lei il tempo più intenso e straordinario che potessi immaginare, anche solo per un paio di ore, anche oggi, chissà magari mi manda whatsapp… Altre volte si faceva soltanto intravedere in posti e situazioni inaspettate e impensabili come una volta al Lido di Ostia durante una premiazione in fondo al teatro, in pareo e ciabatte mentre tornava dal mare, giusto il tempo di incrociare lo sguardo e coglierne il sorriso e non c’era più. Oppure in una discoteca in Costa Azzurra, vestita da punk con i capelli mezzi blu e una serie interminabile di orecchini al lobo sinistro, farmi un ghigno e sparire. O quella volta mentre vivevo un momento di felicità in una birreria a Vienna con un’amica francese venire al nostro tavolo a vendere le rose e io che comprai tutto il mazzo e poi non sapevo a chi darlo, se a lei o alla mia amica francese, che mi guardava e non capiva, come, forse, non capivo neppure io e come probabilmente leggendo non capite nemmeno voi. Perché fra me ed Ophelia e stato, è e, forse, sarà sempre così:

 

OPHELIA     (destino…)

le unghie affilate della tua mano

conficcate nella bocca dello stomaco

scavano pertugi di sgomento

scavano raschiano se ne vanno

e rimane l’amaro di acidi mai digeriti

tu sei andata a sederti sulle ginocchia

di rime baciate fra cuore fiore e amore

per non perdere il vizio di essere viva

di avere ancora un posto riservato

tra le ultime file del loggione demodé

confusa fra bellezze meno belle di te

dispersa tra i ricordi che hanno di te

applaudire alla recita dei tuoi cliché

 

io basta

non ne voglio più sapere

non ti voglio più sognare

…ma una notte buia

la tua mano mi manda un biglietto

“ho voglia di te sei il più grande il più vero poeta che c’è”

vezzeggiato blandito palpato inorgoglito

un istante soltanto dal fedifrago messaggero

“lascia stare la mia impettita solitudine

continua a brindare con i tuoi amici rimatori

ridondanti signori: champagne!!!!”

…e il tarlo delle unghie solletica la mente

trafigge pensieri latenti sempre pronti

a scattare sulle strisce dell’arcobaleno

negli incantevoli dialoghi tra fughe e ritorni

nel tormento di gioia nell’euforia di dolore

…e via sull’ottovolante delle nuvole

in mezzo a pesci mai visti finora

sopra fiumi anneriti dal fumo

fra stalattiti di ghiaccio e di fuoco

sotto ali di corvi giganti

nel tuo ventre di mamma e di mano

che guida l’imprescindibile anelito…

di nuovo di nuovo qui di nuovo con me

musica e pioggia di colori e d’incenso

violoncelli di sfondo a tramonti sul mare

palpiti allungati fino a dove si vede

meridiani che avvolgono il mondo

parole che sgorgano a fiotti di sangue

sul pavimento che diventa piscina

sulla tua mano che graffia la pelle

metamorfosi d’amore fluttuante

sentimento bifronte contrastante

nell’odio del prossimo addio

 

basta ora basta per sempre basta

vai via chiudo a chiave la porta

vai con quei fogli a brindare laggiù

tu mi chiedi la morte dissanguata

l’alveo secco di un fiume d’agosto

la mia morte è la tua vita

la mia vita a piccole gocce

come linfa per i tuoi calici levati al cielo

al gran galà dei tuoi amici astemi

brindabrinda con loro brindate alla notte

brindate con l’acqua niente gocce

del mio sangue per oggi per mai

tritate quelle parole rimasticate

come marmellate di corone d’alloro

versi sdruccioli dell’acqua augurale

di un domani fatto di ieri

il mio domani nel silenzio assoluto

di una mano mozzata di netto

intrappolata in un crampo fatale….

 

ma tanto sai che prima o poi

il mio/tuo destino busserà alla porta

e la mano come coda di lucertola

scivolerà sui tasti in controluce

per versare qualche goccia di schiuma

nei tuoi calici assetati ormai arsi

sospesi e svuotati nella notte dei tempi

da un nulla che devi riempire

per essere la più bella delle belle

la più brillante fra le stelle

in prima fila centrale in platea

allo spettacolo del tuo rinverdire

della tua vita che versa a tutti la linfa

della mia vita che perde le gocce

della tua vita che minaccia speranze

della mia vita che illumina l’istante

della tua vita che torna a brindare

alla mia faccia di viticultore

alla mano che raccoglie la feccia

sul fondo della botte ormai vuota

negli ultimi versi crocefissi sulla bara

Renato Barletti ©2016

Potete seguire Renato ogni sabato in “Suggestioni e percorsi poetici