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Era la vigilia di Natale del 1979, verso sera con le luminarie accese da poco, erano luminarie sgangherate, diverse lampadine bruciate qua e là. Le luminarie così ridotte manifestano il volto di una crisi: luci per festeggiare, ma tante luci spente, luci che c’erano e che ora non ci sono più, luci che nessuno ha potuto o voluto riparare, proprio quel lassismo che inizia dalle cose inutili per poi estendersi alle altre e la fine degli anni Settanta…
…erano anni di profonda crisi, una crisi latente, radicale, sociale prima ancora che economica, la crisi di una società attraversata da una guerra civile latente nell’apice di una guerra mondiale non dichiarata ma nel pieno del suo “splendore”. Insomma anni inquieti. Per noi, diciottenni o giù di lì, erano tutte cose che ci sfioravano, a volte toccavano, ma era troppa la voglia di vivere e di imporsi sulle regole del mondo, quello dei nostri genitori e della scuola, sulle ipocrisie che vedevamo tutto intorno, sulla società stessa che ci appariva tremendamente vecchia e senza futuro, su tutto indiscriminatamente. Infatti da un giorno all’altro la nostra musica è diventata la new wave che era nata proprio per questo, per saltare a pié pari il passato e iniziare una nuova storia. C’erano i registratori a cassette e ne portavamo sempre con noi almeno uno che suonava i Talking Heads o i Ramones o la Siouxie and the Banshees o anche alcuni “grandi vecchi” del rock, quelli che avevano precorso i tempi e che in pratica erano i padri di quella musica: David Bowie, Lou Reed. Iggy Pop. Loro vivevano a Berlino perché lì diceva David Bowie: “non esiste il passato, solo presente e, forse, futuro, ci sono soltanto quartieri nuovi o macerie”. Come gettare tutto dalla finestra e ricominciare daccapo, ecco come avremmo voluto essere, come cercavamo di essere, come eravamo convinti di essere. Loro vivevano a Berlino noi a Sanremo, bella differenza. Anche se in quegli anni non crederete mica che Sanremo fosse la città del Festival, cioè c’era, ma non se ne accorgeva nessuno, sembrava che quel mondo paludato facesse il Festival di nascosto, perché andava fatto, ma forse erano tutti cosci che una c… (ascoltavamo Frank Zappa mica Leano Morelli!). Poi qualche anno dopo tutto è cambiato e hanno rincominciato a presidiare la città con passerelle, caravan, sfilate e tanta gente a inseguire i cantanti in alberghi, ristoranti e dovunque. Ma vi assicuro che verso la fine degli anni Settanta Sanremo non era la città del Festival, era un microcosmo, nemmeno troppo micro, dove si intrecciavano tutte le dinamiche delle grandi città italiane, anche quella tensione latente, forse soprattutto quella. Noi eravamo ragazzi con tanta voglia di essere diversi e di gridarlo a squarciagola; eravamo essenzialmente dissacratori, tanto, spesso senza limiti, come fossimo stati anche noi a Berlino. Motivi, persone, situazioni da dissacrare e per dissacrare ce n’erano sempre e se ne trovavano sempre, tanto tutto potenzialmente sarebbe stato da dissacrare, anche noi stessi, altro che trasgressione!
Tra l’altro quelle luminarie vecchie e mezze rotte facevano una luce tremolante poi con il vento l’effetto aumentava ancora, ah luminarie con poche certezze. Ma era certo che fosse il 24 dicembre del 1979 verso le cinque della sera. In Piazza San Siro eravamo tanti sui gradini della scuola proprio in faccia all’uscita della chiesa dal lato del battistero dove urgevano i preparativi per il presepio. Ricordo che ascoltavamo il primo disco dei Joy Division, Unknow Pleasures (il nome del gruppo derivava dalle baracche delle donne ebree nei campi di concentramento nazisti, Joy Division appunto, e il disco si intitolava “piaceri sconosciuti”. Ecco il senso di quel nostro modo di essere: cercare aspetti piacevoli anche nella merda che più merda non si può. Dalla Piazza passavano migliaia di persone ogni giorno, molte tutti i giorni o più volte al giorno, alcune passavano e ci guardavano spesso con aria di disappunto, altre si fermavano e dicevano qualcosa, qualcuno si fermava e basta. Quella sera, saremo stati una ventina il registratore appeso ad un gancio sul muro, si era fermato Facciata e si era seduto sui gradini di lato, non diceva nulla, stava lì seduto come fosse uno noi, ascoltava e sorrideva. Di lui non sapevamo nulla, avrà avuto ad occhio una quarantacinquina di anni, Facciata perché aveva il viso piatto, schiacciato, naso compreso come quando un cartone animato cade di muso, Facciata appunto. Non è che le altre volte intavolasse chissà quali discorsi, credo che forse abbia detto solo o quasi: “c’ho tre figli io, Ancela, Cianni e Intrea il più piccolo”, proprio così, per forza con quel naso tutto schiacciato tipo Will Coyote quando precipita giù e sbatte. Solo che Will Coyote poi si alza e gli si raddrizza tutto, a Facciata no e aveva quel viso e quella voce, ma sembrava una brava persona, si fermava lì forse per farsi qualche risata e ritardare un po’ il rientro a casa. Lo consideravamo una presenza saltuaria ma continuativa nel tempo, come altre, ma poche altre. Infatti non erano molti gli adulti che ci sopportavano e pochi quelli che interagivano con noi, sarà stato per le voci, fondate o meno, che ci dipingevano come perditempo, contestatori, drogati e tante altri bei giudizi; nel complesso non eravamo simpatici agli adulti. Forse sarà stato semplicemente per i capelli lunghi o per il casino che facevamo, ma ci piaceva pensare che avvertissero il disprezzo che nutrivamo per il loro mondo e perché lo nutrivamo e cosa volevamo, chissà? Quelli che si fermavano e interagivano con noi, parlando o stando zitti, erano più che altro “persone particolari”, qualcuno potrebbe definirli strani, solitari, disadattati, ubriaconi; a me piace dire che erano “personaggi”. Sì personaggi con caratteristiche, a volte solo una, ben definite, come se si fermassero per interpretare quel personaggio, solo che non interpretavano nessuno, erano se stessi e basta. Forse il nostro pregio era metterli a proprio agio, senza giudicare nessuno, magari prenderli per i fondelli, ma non giudicarli. In fondo fra di noi principalmente ci si prendeva per i fondelli, senza motivi per sentirsi offesi e se qualcuno si sentiva offeso se ne andava, semplicemente. se quei “personaggi” si fossero fermati con dei loro coetanei o con diversi altri gruppi di ragazzi, credo, sarebbero stati pesantemente presi per il culo e trattati proprio come strani, solitari, disadattati, ubriaconi…
Non ricordo cosa si stesse facendo o di cosa si parlasse, ricordo solo che ad un certo punto sbucò dal vicolo sul lato della chiesa Mario Belladonna. Camminava compassato e veniva verso di noi, una trentina di metri lunghi molto di più, come per creare attesa, come se avvertisse che c’era aspettativa per le sue parole. Di solito si metteva davanti ai gradini e parlava con noi a capannello per sentirlo e guardarlo. Cosa diceva? Beh un attimo di attesa, prima descriviamo un po’ il “personaggio”. Era un uomo più o meno di quaranta anni, difficile descriverne l’aspetto, non alto, non magro, ma nemmeno basso o grasso, faccia rotonda, pelle scura, capelli neri riccioli con una rosa sulla nuca, cavallo basso e una pancetta prominente, a prima vista non sexy, almeno credo. Parlava, raccontava con una logorrea instancabile, molto ridondante con alcune frasi tipiche ripetute all’infinito, come nella poesia epica, nelle saghe, nelle ballate. Anche quella volta si mise davanti ai gradini, come fossero una platea, assunse la sua posizione tipica: una gamba in avanti come i pugili, il tronco anche in avanti ciondolante a tratti insieme alla testa, un braccio a gesticolare come per darsi il tempo e la sigaretta accesa dimenticata fra le dita fino a che la brace non raggiungeva la pelle, bestemmia e via il mozzicone. Parlava storcendo la bocca da un lato e creando dalla parte opposta un incavo all’attaccatura delle labbra, un incavo nel quale si formava una specie di schiumetta bianca e più parlava e più se ne formava. Parlava, raccontava e quando diceva una frase importante, un’affermazione, si girava, faceva tre o quattro passi all’indietro e poi ritornava riprendendo la posizione di prima, varie volte come fosse un gesto studiato per dare solennità al contenuto sul palcoscenico della Piazza:
“oggi è il giorno più bello della mia vita: siamo entrati con i carrarmati in Afghanistan e lo abbiamo invaso!” Accidenti che gioia, ovvio che fosse il giorno più bello della vita, e per chi non lo è stato? Mario Belladonna era comunista, di quei comunisti che c’erano allora. Un comunista acritico, forse inconscio di Marx e del marxismo, ma con un atteggiamento fideistico verso il “Partito” e tanto amore verso l’Unione Sovietica. Non era mica l’unico così, era pieno di comunisti come essere juventini o giù di lì e di anticomunisti come essere dell’Inter o del Milan o giù di lì. Poi paventava di essere stato partigiano, ma i conti tornavano poco, mah forse partigiano a sei o sette anni, possibile. In ogni caso a volte parlava della sua visione politica, ma spesso, quasi sempre, i suoi monologhi vertevano su altri argomenti:
“ho incontrato una ragazza, ventiquattro/venticinque anni, studentessa, milanese, alta, pelo nero, belladonna (capito perché il cognome?), ero davanti al bar e lei mi guardava, mi sono avvicinato e le ho detto se veniva con me al cinema. Siamo entrati al Cinema Centrale, di sopra, non c’era nessuno al primo spettacolo: due bombini!” agitanto indice a medio a far risaltare bene il numero due. E poi una minuziosissima dovizia di infiniti particolari, dall’intensità dello sguardo, a come fosse vestita, a come si fosse chinata con il viso su di lui fra le poltrone del cinema. Noi ad ascoltarlo e guardarlo, nessuno chiese quale film ci fosse, non era certo importante. E Mario parlava, raccontava, ogni tanto due passi all’indietro, un’altra sigaretta, di nuovo avanti gesticolando, facce di goduria, mimava, accidenti di nuovo brace sulle dita, bestemmia, via il mozzicone, sempre più schiumetta nell’incavo all’attaccatura delle labbra. Oggi era studentessa, milanese, al cinema, ecc.; altre volte magari era: “cinquantacinque anni, avvocatessa, di Biella, al mare sulla scogliera” oppure “madre di famiglia, trentacinque anni, ninfomane” o… beh tante altre, ma tutte sempre: “pelo nero, bella donna”, ovvio. Senza esagerare però non tutti i giorni, un paio forse tre a settimana, era così, piaceva visceralmente alle donne e quando lo vedevano quasi tutte se lo volevano scopare dove capitava, che fosse in un vicolo o in una cabina in spiaggia o dove chissà. Ah, dopo una mezzora di racconto gesticolato e mimato, incominciavano a vedersi perline di sudore sulla fronte e fra il labbro e il naso, mancavano le luci di scena lì in Piazza, ma immaginate Kenneth Branagh che interpreta Riccardo III o Amleto, uguale. Non c’era dialogo, solo lunghi intensi monologhi, a volte qualcuno in un raro momento di silenzio lo imbeccava con piccole frasi tipo “com’era?”, tre volte?!?”, “era vergine?”, Mario prendeva il la e partiva per una tangente del racconto, sempre pronto, preparato, svelto nel cogliere. Mi sorge il dubbio che qualche volta confondesse le donne fra di loro, il viso di una sul corpo di un’altra oppure i posti e le situazioni, possibile vista l’enorme numero delle storie, ma difficile, perché sembrava sempre coerente, nella linea del racconto, nessuna tangente: “pelo nero, bella donna”.
Ennio Flaiano affermava che “i maschi italiani fra di loro quando non parlano di calcio parlano di donne e quasi tutte sono a pagamento o immaginarie”. Mario Belladonna era un maschio italiano tipico, sia che tutte quelle storie fossero reali o di fantasia, forse con una “visione” dell’universo femminile un po’ datata, anche se mi sembra che oggi (2017) la “visione” comune sia tornata abbastanza simile alla sua e forse peggio. Nessuno di noi ha mai creduto che nemmeno una di quelle storie fosse vera, vera nel senso di realmente accaduta, perché in tutti gli altri sensi erano tutte vere, mi spiego meglio. La veridicità di una “cosa” è data o dall’inconfutabilità delle testimonianze o dalla coerenza del racconto, come in letteratura: chi vi dice che le cose che state leggendo siano vere o inventate da me di sana pianta? Però, credo, di starle raccontando con una certa coerente linearità e questo basta in letteratura e forse anche nella vita. La vita non è forse l’insieme delle cose che ci sono accadute e di quelle che ci sarebbero potute accadere? E il bello della vita forse è che quelle accadute assomiglino molto a come le avevamo immaginate e quelle non accadute a qualcosa che eravamo comunque pronti a vivere. Mario Belladonna era in effetti pronto a viverle, tutte una per una, sono certo che non avrebbe mai confuso la studentessa con la madre di famiglia, l’avvocatessa con la ninfomane o la spiaggia con un prato in collina, era preparato e allenato. A molti potrebbe sembrare che io lo stia prendendo in giro, beh forse un pochino ma c’è molta stima, non tanto per il contenuto semmai per il contenitore. Per l’istrione, per un uomo che si cercava una platea di ragazzini per strada e partiva per il suo show, senza cappelli per le monete, solo per “essere sé stesso”, ci vuole coraggio o incoscienza o entrambi tanto il confine è labile. Ci sono molte persone che raccontano frottole per svariati motivi, per secondi fini, raggiri, interessi, soldi; e quelle sono frottole sul serio, come molte che si raccontano a se stessi. Mario Belladonna non raccontava frottole, raccontava e basta, naturalmente, con tutto se stesso, quello che raccontava era: questa sì che è coerenza. Immaginarsi la vita sino al punto da farla diventare reale, quanti ci riescono? Aveva un sogno, forse inconscio, e la forza di realizzarlo e lo realizzava poco alla volta, racconto dopo racconto, quanti ce ne sono così che però non ci riescono? Questa è letteratura, come Riccardo III o Amleto: “pelo nero, bella donna!”
Sono passati molti anni da allora, in Afghanistan c’è ancora guerra, quella Piazza è semivuota da decenni, quei ragazzi sono cresciuti, almeno di età, nessuno ha cambiato il mondo, pochi ci hanno provato, molti ascoltano ancora i Joy Division e i Talking Heads, tutti, credo, si ricondano con piacere di Mario Belladonna e dei suoi racconti. E lui che fine ha fatto? Vive ancora nei suoi racconti o sulla tangente? Non lo so, non ne ho più avuto notizie. Qualche anno fa passando in auto l’ho visto davanti ad una vetrina nelle sue classiche pose, ma non ho compreso bene se stesse “provando” un racconto per la prossima occasione o se si rimirasse nell’ultima possibilità che gli è rimasta: raccontarsi a se stesso… accidenti la brace sulla pelle, bestemmia, “pelo nero, bella donna”…
Renato Barletti ©2017
Potete seguire Renato ogni sabato in “Suggestioni e percorsi poetici”