Premetto di essere allergico alle “feste comandate”, soprattutto a quelle con dedica, a quelle che in quel giorno lì tanti auguri e riconoscimenti e poi gli altri trecento sessantaquattro acido in faccia e supremazia. Inoltre sono nato e cresciuto e ho vissuto gran parte della vita in una terra dove la mimosa è rigogliosa e in fiore da novembre a febbraio, circa, e vederla donata e fatta simbolo a marzo quando ormai ha spento quel suo giallo esclusivo, mi è sempre parso avvilente. Forse fosse “giornata della donna” e non festa la digerirei meglio; premessa fatta, sono ben conscio delle mille problematiche in gran parte del mondo, ma sono qui per raccontare cose di arte. Volevo scrivere un pezzo da dedicare alle donne, un pezzo che parlasse di vita perché (io lo cito spesso e chi mi legge lo sa) come dice Shakespeare per bocca de Il Mercante di Venezia:
“considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ciascuno deve recitare la propria parte”.
E la parte che ciascuno recita è la propria vita lungo quel confine antico e irrisolto che divide la commedia dalla tragedia, fra il riso e il pianto, fra la gioia e il dolore. Quindi ho pensato di raccontare la vicenda umana di una donna che possa essere emblematica, ovviamente in automatico ho pensato a un’artista e quasi immediatamente mi è venuta in mente la parte recitata da Marina Cvetaeva: una grande artista, personalmente credo il più grande, forse, poeta donna del Novecento.
Come fosse con una gamba in un mondo e l’altra in un altro, l’8 ottobre o il 26 settembre del calendario giuliano, in vigore nella Russia zarista, del 1892 nasce a Mosca Marina IvanovnaCvetaeva. Nasce con il dna intriso di arte: la madre, per metà polacca, grande pianista e il padre celebre critico d’arte e filologo nonché creatore del Museo Rumjancev, l’attuale Museo Pushkin. Non solo il dna, ma si nutre e respira arte già da bambina negli ambienti che la circondano e a sei anni scrive e legge pubblicamente la sua prima poesia. Come fosse sinceramente non lo so, ma di certo testimonia quell’”urgenza” di esprimersi creativamente che solletica l’animo degli artisti. Tanto interesse per la letteratura, poesia e teatro soprattutto, un amore immenso per Goethe. Poi la malattia della madre, tubercolosi, soggiorni sempre più lunghi in Svizzera e Germania dove frequenta collegi fra gli undici e i quattordici anni. A sedici anni la famiglia rientra a Mosca e Marina ufficialmente è iscritta al Liceo, ma di fatto si impegna principalmente nell’organizzazione di letture, dibattiti, rappresentazioni (accidenti come mi ricorda l’adolescenza di una persona che conosco molto bene!). Marina è forte, decisa, autonoma e straordinariamente dinamica; è chiaro come l’aggettivo “ribelle” le fosse subito confezionato sulla pelle, il modo più semplice per inquadrare chi non si riesce a inquadrare in schemi preconfezionati. Certo, la passione di Marina per la poesia era enorme, totalizzante, capisco che non potesse essere facilmente compresa dai più, anzi da quasi tutti direi. Quella passione totale la porta a diciassette anni, da sola, ad andare a Parigi per frequentare un po’ di soppiatto le lezioni di letteratura francese alla Sorbonne, in particolar modo quelle sull’amatissimo Edmond Rostand. Ripeto: a diciassette anni nel 1915 una ragazza da sola a migliaia di chilometri da casa per inseguire il proprio sogno, la propria passione, per essere se stessa. Ma facciamo una divagazione, Goethe e Rostand significano soprattutto due fra i personaggi più immortali della letteratura: Faust e Cyrano. Faust è soprattutto uno spirito tormentato, da un demone che gli promette piaceri e onori, ma fuor di metafora dalla propria interiorità alla ricerca di “altro”. Cyrano, contemporaneo di Marina e da molti considerato oggi il personaggio teatrale più conosciuto, è un vorticoso spadaccino attraversato dal fuoco della poesia e dell’amore, ma incapace di esprimerlo all’amata e sempre impegnato ad escogitare espedienti sino a quello fatale che gli costerà la vita. Faust, che pure dà l’anima al diavolo, viene redento grazie alla propria continua ricerca: “per avere di continuo aspirato all’infinito”. Anche Cyrano le prova tutte per l’amore, per l’amicizia e per la poesia, ma le cose gli andranno peggio. Marina a diciotto anni pubblica il primo libro di poesie, ma lo sappiamo che la poesia non ha età e il suo libro ottiene attestati di stima da molti dei più importanti poeti russi; ottime recensioni per questo poeta minorenne che fa del simbolismo il centro della propria espressività (sarà ricordata nelle storie letterarie come uno dei massimi esponenti del simbolismo russo). In quegli anni a Mosca vi era un celebre e acclamato poeta, MaksimilianAleksandovicVolosin, padre del simbolismo russo, che costituì nella propria casa di Koktebel una sorta di accademia per giovani poeti, una cosa non ufficiale, un laboratorio, un luogo di incontro, formazione e scambio. Anna vi venne invitata e lì conobbe il giovane poeta SergejEfron, con il quale si legò, ebbe tre figli e, in un’alternanza di amore, assenza, tradimenti, tragedie e molto altro, sarà l’uomo della sua vita. Stavano per iniziare anni difficili, difficilissimi: la guerra e la rivoluzione, gli scenari stavano per cambiare, per stravolgersi. Insomma Marina si ritrovò sola (Efron era ufficiale dell’Armata Bianca) a venticinque anni con due figli nel mezzo della rivoluzione bolscevica; perse tra l’altro la figlia più piccola per freddo e stenti. I circoli letterari si adattarono alla rivoluzione e soprattutto alla parte vincente della rivoluzione, il regime presto si instaurò, gli intellettuali non vedevano di buon occhio quella donna così indipendente e “moderna” né la sua poesia e nel giro di qualche anno divenne esule, prima a Berlino e poi a Praga.
Ma dentro Marina si agitava forte un’altra grande passione: l’amore, un amore totale e totalizzante, contiguo e incompatibile con l’arte, sì proprio così, l’amore che si identifica con l’arte ma al tempo stesso diventa una sorta di alter ego dell’arte. E lei doveva vivere appieno entrambe le pulsioni anche se avrebbe potuto significare annientarsi. L’amore fisico, anche solo un bacio, vissuto come assoluto del sentimento, come la fusione di due spiriti. Difficile da spiegare, ancor più difficile da comprendere. L’amore per Marina è un’arte, l’arte poetica omnicomprensiva di tutto, è l’assenza dei corpi che si realizza nelle parole, nei versi; è altresì amore erotico, fisico e anche solo un bacio viene vissuto come assoluto del sentimento, come la fusione di due spiriti. Marina chiedeva “il miracolo della fiducia, della comprensione, della rinuncia”: la fiducia, la fedeltà dell’anima e verso l’anima, la comprensione per quella sua esigenza primaria ed irrinunciabile di scrivere e fare e vivere poesia e la rinuncia a qualsiasi tipo di vita insieme. Però senza mai essere disposta a “annientarmi di amore per non diventare cieca di fronte agli alberi, alla neve, al mondo” perché nella vita aveva già una propria grande missione. In quegli anni a Mosca e poi anche successivamente ha vissuto un turbinio di storie, avventure, incontri, sino a che l’amore andava a scontrarsi con la realtà, ecco il vero motivo di sofferenza: quell’amore che era “motore” per fare poesia, per conoscere il mondo e in definitiva per essere se stessa, ad un certo punto si va a scontrare con il mondo e diventa infelicità. Quindi l’amore per “essere” che diventa motivo di “non essere” in una dicotomia ineluttabile fra amore e non amore. Oggi la mia prosa potrà sembrare arzigogolata e scalatrice di specchi, ma non è così: sto girando intorno a due punti e cerco di illustrare un qualcosa che dentro di me è chiaro (molto chiaro) in termini quanto più espliciti possibile, ma può apparire un cane che si morde la coda. Perché si tratta in effetti del cane che si morde la coda, di un tirare da una parte per poi farlo dall’altra. Marina scrive: “voglio leggerezza, libertà, comprensione, non trattenere nessuno e nessuno che mi trattenga”, la dicotomia/equivalenza diventa fra “amore” e “non amore”. Marina avrebbe potuto amare e sentirsi amata soltanto da chi a lei “avrebbe preferito una betulla” perché in ogni caso lei di fronte al cielo non avrebbe mai potuto pensare “al vostro amore, all’amore di chicchessia”. Seppur “condannata al non-amore”, amò tantissimo, amò molti poeti e molte poetesse, molti artisti, molte anime affini alla sua che potevano come lei incendiarsi “per un verso, per un albero al bordo della strada”. Tra gli altri sono celebri e documentati da epistole i suoi amori con Boris Pasternak e Reiner Maria Rilke. Amava e poteva essere amata solo da chi “tendeva verso l’infinito”, come lei stessa, come Faust o come Cyrano.
A Praga visse, forse, i tre anni più felici o perlomeno più sereni della propria vita, si ricongiunse con Efron, ebbe un altro figlio e pubblicò nel 1922 quello che viene considerato il suo capolavoro: Versti I. Una serenità effimera, con il marito invischiato nell’omicidio del figlio di Trosky e nuovamente fuggitivo ed esule, pare in Spagna poi teatro della sanguinosa guerra civile, non lo vide più e soprattutto non accettò mai che potesse essere un assassino. Marina si trasferisce a Parigi con i figli, ma non è più quella Parigi dei diciassette anni piena di speranza e di “amore”, quei dodici anni a Parigi hanno rappresentato l’altra faccia della medaglia, lo scontro con la realtà, il non-amore, la miseria. Sino a che, spinta dai figli, alla vigilia del conflitto mondiale decise di tornare in Russia. Ma in Russia la rivoluzione si era affermata, sicuramente non avrebbe mai potuto pubblicare nulla, era una sorta di nemico della patria, la miseria rimaneva la stessa di Parigi e per di più non aveva letteralmente un posto dove vivere. Assolutamente emarginata, ma il peggio doveva ancora venire: nel giro di pochi mesi vennero arrestate e internate nei gulag prima la sorella e poi la figlia, insomma sembrava inseguita dalla tragedia. Per lei rimaneva soltanto l’esilio in un paesino della Tataria, un paesino sperduto nella steppa e per sperduto intendo letteralmente in mezzo al nulla, con pochissime case vicine e una villaggio a qualche decina di chilometri e una città a diverse centinaia. Inoltre la miseria, per lei e per il figlio Mur, non si attenuò, anzi in pratica vivevano grazie all’elemosina da parte delle poche famiglie di contadini dei dintorni. Difficile tendere verso l’infinito in queste condizioni, difficile cercare l’amore o qualsiasi altra pulsione, difficile sopravvivere a se stessa. Questa donna che aveva sempre inseguito la libertà e che per certi versi ne era diventata, e ne è ancora, simbolo, doveva vivere con ogni tipo di libertà negata.
La mattina del 31 agosto del 1941, una domenica, Marina IvanovnaCvetaeva salì in piedi su una sedia, girò una corda alla trave del soffitto e si impiccò. Lasciò un biglietto, sequestrato dalla polizia e poi fatto sparire, che nessuno lesse e tre giorni dopo il carro funebre entrò nel piccolo cimitero di campagna senza nessuno al seguito, tanto che non si sa nemmeno in che punto venne sepolta.
Rimane solo la sua opera, della quale non ho parlato, ma che invito a leggere, rimane la sua Poesia così disincantata, moderna, piena di acume e simbolismo, piena di libertà… lei sì, alla Poesia nessuno toglie la libertà, almeno sino a che qualcuno la legge, la interpreta, la fa propria. Propongo in conclusione e senza nessun commento una poesia per certi versi “strana” che si rivolge a un interlocutore e mette in dicotomia l’amore che guarda verso l’infinito e… un altro tipo di amore…
Ditemi: come va con l’altra
Ditemi: come va con l’altra?
Meno grane? – Mano ai remi! –
Vana linea costiera s’assottiglia,
scompare la memoria estrema
di me, isola fluttuante
(per cielo, non per mare…)
Anime, anime: sorelle! Anime:
amiche – mai più amanti! –
Come vi va con la creatura
semplice? Senza divinità? E poi?
Voi, sceso dal trono, voi
che avete deposto la regina,
come vivete? Non c’è male? Non più
beghe? E bevete – quanto, adesso? – E la cucina?
Il dazio della mediocrità immortale
come lo pagate, poveretto?
“Basta con le scenate, con gli eccessi –
cambio casa, vado via!”
Con la prima che capita – come state
di che vivete, voi – mio eletto?
Mangiate – e dopo pranzo un sonnellino?
– Non lamentarti quando sarai sazio!… –
Con il simulacro come state
voi che avete dissacrato
il Sinai? Come vivete con la donna
terrestre? Per la costola vi piace?
Non vi frusta la fronte la vergogna?
E la salute? E i nervi? Senza
problemi? A letto tutto bene?
L’immortale piaga della coscienza
come la curate, poveretto?
Come vivete con la merce da mercato?
Troppo cara la vita? Vi assilla
l’alto prezzo? Dopo i marmi di Carrara
che ve ne fate del tritume
di gesso? (È in pezzi
il dio scolpito nell’argilla…)
Come ci state con la millesima che trovate?
Voi che avete conosciuto Lilith? –
Già v’annoia l’ultima trovata
della moda? Sottratto all’incantesimo,
dite, come ve la passate
con l’umana senza il sesto
senso?
In coscienza – sei felice? –
No? In quel disastro senza dei
come stai, amore? È dura? Sì?
Come per me con l’altro?
Renato Barletti ©2017
Potete seguire Renato ogni sabato in “Suggestioni e percorsi poetici”