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Le mattine di agosto in Andalusia sono avvolte in una luce velata dal calore che evapora dalla terra e distorce le forme facendole danzare come miraggi nell’aria. Dalla finestra di un vecchio casolare un Uomo di trentotto anni guardava sorgere il sole, dalla finestra di una stanza chiusa a chiave, di una stanza divenuta prigione la sera precedente. Guardava quell’alba colorata di rosa e ne ricordava mille altre già viste in quella terra dove era nato, mille sogni fatti con il sole basso all’orizzonte in quelle mattine di inizio secolo dalla finestra della casa dell’infanzia a Fuente Vaqueros. Sogni di ragazzo proiettati nel domani, sogni di poeta lasciati liberi di volare per il mondo, sogni di libertà. Quella libertà che da ieri sera aveva perduto. Il suo viaggio da Madrid a Granada si era fermato nella campagna intorno a Viznar in un paesino di quattro case. Ieri pomeriggio era stato arrestato per strada mentre attraversava Fuentegrande di Alfacar, ormai vicino alla méta del viaggio, ormai prossimo a riabbracciare il padre dopo un po’ di tempo. Aveva approfittato della pausa estiva della tournée del Teatro Universitario la Barraca che dirigeva con tanta passione e con il quale portava in scena le proprie opere che in prima persona recitava, come i più grandi autori del teatro di ogni epoca (Plauto, Shakespeare, Molière per dirmi solo tre). Quella compagnia venne fondata tre anni prima dal Ministero dell’Educazione della neonata Seconda Repubblica per portare il teatro nei luoghi più sperduti della Spagna. L’Uomo si tuffò anima e corpo in quel progetto e scrisse e mise in scena opere divenute memorabili. In quell’agosto stava lavorando su alcune idee che sarebbero diventate gli spettacoli della tournée successiva, ma da un po’ di tempo la sua concentrazione era disturbata. Esattamente dalla Fiesta di San Firmino del luglio precedente durante la quale a partire proprio da Pamplona è iniziata tutta una serie di avvenimenti che immediatamente non lasciavano presagire nulla di buono né per la compagnia né per la Repubblica o la Spagna in generale, né soprattutto per la propria famiglia. Il padre era sempre stato repubblicano e il marito della sorella era il sindaco socialista di Granada, entrambi erano già stati arrestati dai falangisti il giorno precedente, ma non lo sapeva. Ieri padre e cognato e oggi lui mentre scriveva appunti per una nuova pièce in camicia bianca con le maniche rimboccate su quella strada polverosa nella canicola di agosto. Camicia bianca, non nera o marrone, bianca come quel martire madrileno nel celebre quadro di Francisco Goya, che fosse un presagio visto che un secolo dopo il popolo spagnolo era nuovamente in lotta per la libertà? Ma l’Uomo non perse la calma e seppur agitato da mille tormenti e da una vena di umana paura cercò di rimane se stesso quando sei giovani con il fucile imbracciato e la coccarda con il simbolo della CEDA, gli intimarono di fermarsi. La Confederazione Spagnola delle Destre Autonome era una delle componenti politiche del Frente National che aveva riunito le diverse componenti conservatrici per le elezioni del febbraio precedente vinte dal Frente Popular, coalizione delle sinistre. Ma la CEDA, come altri gruppi, non aveva accettato quella sconfitta e da luglio era passata all’azione; quel giorno nella campagna andalusa l’azione consisteva nell’arresto di quattro uomini: oltre al nostro Uomo, un maestro elementare membro del Frente Popular e due toreri anarchici. Non se ne parlava ancora in termini aperti, ma era palese che fosse appena iniziata una vera e propria guerra civile. I sei giovani lo portarono nel casolare, abbandonato o fatto evacuare, e istruirono una sorta di interrogatorio nel quale non domandarono nulla, fecero solo affermazioni: sapevano chi fosse, cosa facesse, dove fosse diretto e cosa, forse, pensasse. Non lo interrogarono subito, ma verso sera, prima di lui interrogarono il maestro, al quale invece avevano fatto domande, di quelle domande che esigono risposte e risposte convincenti che siano utili a chi te le pone. Gli interrogatori si tenevano in una stanza non distante dalla sua e le urla del maestro giungevano chiare e forti, arrivava anche il suono delle mani sulla pelle, quello netto degli schiaffi a mano aperta sul viso e quello più sordo dei pugni nello stomaco; le urla e il pianto del maestro ma nessuna parola. Non è che le voci giungessero proprio chiare e le domande non si riuscivano a capire ma lui si aspettava qualcosa di simile anche per sé e, sinceramente, non sapeva se avesse avuto la forza di rimanere se stesso. Ma poi cosa mai avrebbero potuto chiedergli, quali risposte si sarebbero potuti aspettare, di segreti non ne costudiva se non quelli delle trame e delle vicende dei drammi che stava scrivendo e quelli ai sei ragazzi della CEDA non interessavano, almeno così presumeva. L’interrogatorio del maestro durò qualche ora, poi dopo pochi minuti di silenzio sentì il rumore della porta che si apriva nella stanza dove era “ospitato” e due miliziani che entravano, lo presero ognuno per un braccio e lo portarono di là. Ormai era calata la sera e quella stanza era illuminata soltanto da una lampada a olio appoggiata su un tavolo contro una parete, in mezzo due sedie e niente altro: una per lui e una per il suo inquisitore e gli altri in piedi intorno. Si sedette un ragazzo di una ventina di anni al massimo, era il più alto in grado dei sei, il comandante di quella squadra, un ragazzo alto, magro con la pelle scura e i capelli fitti fitti, la voce delicata ma decisa. Parlava e iniziò a leggere da un foglio i capi di accusa: “socialista e massone e poi…” lasciando una pausa con l’ultima sillaba cantilenata e riprendendo allungando la prima sillaba “uso a pratiche di omosessualità, aberrazione che è arrivata ad essere vox populi” un’altra pausa più lunga e poi rapido con un tono che assomigliava a una rasoiata e un’espressione che assomigliava ad un ghigno “condannato a morte!” Un ghigno sul suo volto e su quello degli altri cinque: ovvio il Caudillo aveva promesso di “salvare la Spagna dal socialismo, anche a costo di ammazzarne metà degli abitanti”, ovvio la vita di quell’uomo non era nulla se non il suo significato nell’essere soppressa, la vita di quell’uomo molto noto, non soltanto socialista ma anche omosessuale. Per quei sei ragazzi sarebbe stata una gioia oltre che un onore procedere con la condanna, come una medaglia appuntata sul petto per quel conflitto che stava per esplodere. Lui ormai si aspettava qualcosa di simile, non ne capiva il motivo perché in quella guerra non avrebbe mai preso un’arma in mano, ma, si sa, le parole spaventano più dei fucili in certi casi; non c’era nemmeno bisogno di interrogatori o cose simili, era già tutto deciso, almeno avrebbe evitato la tortura. Uscirono gli altri quattro miliziani e ne rimase uno solo, quello che dimostrava più rabbia sul volto, un viso che al contrario aveva lineamenti delicati, occhi azzurri e capelli castani ricci. Aveva sentito gli altri chiamarlo Faccia d’angelo e ora era seduto di fronte con la testa fra le mani rivolta al pavimento, la muoveva come per dire di no. Poi di un tratto: “socialista, eh?” facendo partire uno schiaffo a meno aperta in pieno viso, uno schiaffo accompagnato dalla rotazione del corpo, lui vacillò sulla sedia e quasi cadde a terra, “massone, eh?” immediatamente con l’altra mano che schioccò sulla guancia. Massone era quasi sinonimo di repubblicano in quella Spagna dalla lunga tradizione monarchica ed anche sintomo di una non adesione alla Chiesa Cattolica, la cui parte più conservatrice era nel Frente National, una parte molto consistente. Monarchia e Chiesa erano le roccaforti simboliche delle destre ed in ogni caso in quella Spagna lì non era cosa semplice essere o dichiararsi laico. Lo guardava diritto negli occhi con un ghigno simile a quello degli altri, ma con una vena di ferocia in più o forse di godimento o forse l’insieme delle due cose, si comprendeva che ad ogni schiaffone provasse piacere. Una scossa di piacere nella propria interiorità, lo schiocco della mano sul viso era una musica e più lo faceva barcollare sulla sedia e più “godeva”, un piacere sottile, appagante. Non faceva nemmeno domande, non c’era nessun interrogatorio da fare, erano schiaffi fini a se stessi, per il proprio divertimento, per appagare un odio coltivato a lungo, un odio generalizzato, un odio che stava per diffondersi in ogni città e ogni villaggio della Spagna. Si alzò dalla sedia girando intorno all’altra sedia, due o tre volte… un calcio come uno sgambetto alle gambe della sedia per farlo cadere a terra. Due uomini: uno a terra dolorante e impaurito e l’altro in piedi sopra di lui con un sorriso di rabbia sul viso. Un calcio secco e deciso alla bocca dello stomaco, un altro e un altro ancora: “marikon, eh?”, un calcio e un altro, “marikon, invertido”. Sembrava che la rabbia si fosse smorzata lasciando parte del suo posto al disprezzo: “marikon, invertido” un calcio e un altro ancora diritti alla bocca dello stomaco. Giunse una voce dall’altra stanza e l’uomo in piedi uscì lasciando l’altro a terra nel suo dolore, un dolore senza sangue: aveva “saputo” picchiare bene. Non rientrò più, ma dopo una mezzora vennero altri due miliziani e lo riaccompagnarono nella prima stanza lasciandolo lì dietro tre giri chiave.
Durante la notte insonne era tornato con la mente all’infanzia, ai vent’anni e alla sua prima rappresentazione a Madrid, un fiasco bello e buono; al trionfo del suo secondo dramma a Barcellona insieme all’amico Salvator Dalì che gli aveva curato le scenografie; a quella sorta di (auto)esilio a Nueva York e a Cuba durante la dittatura di Primo de Rivera e al ritorno in Spagna alla caduta della stessa sei anni prima, un ritorno pieno di speranze. Insomma una vita in piccoli flash nel buio della prigionia e nella solitudine di una notte di agosto. Ma la sua mente indomita di poeta divagava soltanto a piccoli tratti nel passato, era impegnata a dare forma a un’idea venutagli mentre prendeva schiaffoni in volto e calci nello stomaco: l’idea per un nuovo dramma da scrivere, sigh se mai ne avesse avuto il tempo. Pensava a quell’uomo come protagonista, Faccia d’angelo poteva essere il titolo. Pensava soprattutto a come farne l’incarnazione della ferocia, quella ferocia senza motivi, senza limite, oltre tutto. Oltre la tortura che già di per sé è un’aberrazione, ma con un senso, un senso perverso che ne è la finalità; certo bisogna essere sadici e feroci per fare i torturatori, per farsi dire “qualcosa”, per estorcere una qualche verità. Quando non c’è nulla da estorcere rimane solo il gusto di picchiare un’altra persona, di procurarle dolore, di umiliarla, di annientarla facendo valere il proprio “potere” su di essa: ecco questa è la ferocia fine a se stessa. Quella sera in quel casolare Faccia d’angelo la incarnava perfettamente e, se avesse avuto la ventura di sopravvivere ancora un po’ di tempo, Faccia d’angelo sarebbe stato il protagonista del suo nuovo dramma sulla ferocia umana. Il personaggio lo aveva, avrebbe dovuto costruire una trama per raccontarlo. In fondo aveva sempre pensato che il cattivo più cattivo della Letteratura di ogni epoca fosse Jago, proprio perché la sua cattiveria era senza alcuna finalità, solo fare del male ad altri senza scopo, senza nulla da ottenere. Cosa poteva credere di ottenere Jago facendo ingelosire Otello se non il male dello stesso e di Desdemona? E cosa avrebbe potuto ottenere Faccia d’angelo mentre sferrava un calcio nello stomaco scandendo bene: “m-a-r-i-k-o-n”? Solo gioie personali, gioie che sbocciano dalla sofferenza altrui. Forse le gesta di Faccia d’angelo sarebbero potute avvenire nello scenario della guerra civile di un popolo che non trovava pace da oltre un secolo, oppure… quello scenario di lì a pochi giorni sarebbe diventato con potenza devastante la realtà nelle città, nei villaggi e nelle campagne di tutta la Spagna, oltre qualsiasi rappresentazione, oltre la Letteratura.
Da qualche parte a Fuentegrande de Alfacar ci sono i resti del nostro Uomo, forse in una fossa comune insieme al maestro e ai due toreri. Quella fossa non è mai stata trovata e sopra le sue spoglie non c’è e, forse, non ci sarà mai una lapide con scritto:
“qui giace Federico Garcia Lorca (poeta e drammaturgo), fucilato la mattina del 19 agosto del 1936”
“quando spunta la luna
il mare copre la terra
e il cuore diventa l’isola dell’infinito”
Renato Barletti ©2016
Potete seguire Renato ogni sabato in “Suggestioni e percorsi poetici”