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Giuseppe era un uomo di una cinquantina di anni, presumibilmente perché nessuno lo sapeva. Capelli brizzolati ricci e folti, non molto alto, fisico asciutto con tutti i muscoli della parte superiore del corpo ben in evidenza. Si potevano bellamente notare perché stava estate e inverno a torso nudo; una maglietta la aveva, ma sempre arrotolata sopra una spalla o intorno al collo o attraverso i passanti dei jeans. Jeans attillati e arrotolati alle caviglie, a volte scarpe, a volte no. Aveva la pelle molto scura, per forza sempre a petto nudo prendeva tutto il sole che c’era, e il volto disegnato, come i pescatori di una volta dal sole e dal sale. Le rughe gli modellavano una maschera con la mascella prominente leggermente inarcata a sinistra come in un ghigno, gli occhi che strizzavano come per guardare lontano e la fronte spaziosa. Gli serviva spaziosa perché spesso doveva sbattersi con forza la mano sopra come per esclamare qualcosa, come per rivolgersi a se stesso, oppure ad un altro io nascosto lì dentro. Non parlava, almeno nel senso tradizionale del termine, qualcosa diceva ma non si comprendeva nulla, era una sorta di borbottio, nessuna parola comprensibile, probabilmente nessuna parola. Però si poteva comprendere il “sentimento” del suo dire dal tono, dalla flessione, dal volume di quello che borbottava. Il suo modo di parlare era come il suo volto, alla stessa maniera parlava celando ciò che diceva, come una maschera, un velo, un filtro sulle parole. Ecco cosa poteva essere, anzi era, era un mimo! Infatti si nascondeva, si mimetizzava dietro alberi, cantonate, macchine, oggetti inesistenti e sbucava fuori strisciando nell’aria. Doveva fare così, per forza, perché Giuseppe era impegnato in una costante ed ineluttabile lotta contro gli uomini invisibili. Infatti lo si vedeva spessissimo sbucare fuori dando pugni nell’aria, verso l’alto borbottando in quel suo linguaggio mimetico, a volte emettendo qualche urlo monosillabico: “oh” “uh”, raramente più articolato: “ohuho” “ahi”…
Chi fossero gli uomini invisibili o come fossero o cosa rappresentassero nessuno lo sapeva, lo si vedeva così per strada a sferrare pugni al cielo con quelle sue braccia muscolose, si notava l’intensità dello sforzo, come se invece del nulla ci fosse effettivamente qualcosa. I tricipiti e tutti i muscoli della spalla si stiravano per poi allungarsi nel gesto del cazzotto, un cazzotto pieno contro una resistenza, come un pugile contro il sacco; non credo avesse delle allucinazioni. Nessuno in effetti sapeva contro chi fossero diretti quei pugni, lui non interloquiva con nessuno, sferrava cazzotti borbottando e basta. La cosa de gli uomini invisibili non la sapeva nessuno, innanzitutto perché nessuno li vedeva e poi perché lui non l’aveva detto a nessuno. O non parlava o non diceva parole comprensibili, almeno nelle principali lingue conosciute. Ci fu soltanto una persona che riuscì ad interloquire con Giuseppe, non molte volte, un paio o tre giusto per comprendere il senso di quelle lunghissime scazzottate. Franco era un ragazzo, uno di noi senza particolari sintomi di squilibrio, però era una calamita per i personaggi più strani, sembrava che li attirasse e li invitasse a fermarsi e poi riusciva a parlarci e a cogliere di loro sfumature che agli altri sfuggivano. E questo anche con Giuseppe, anche con lui riuscì in qualche modo ad intendersi, solo lui, proprio solo lui, nemmeno infermieri e medici della neuro. Giuseppe gli raccontò che era perseguitato da gli uomini invisibili, che lo pedinavano ovunque e gli facevano agguati; gli raccontò anche che lui però era furbo e che appena ne intravedeva uno incominciava a picchiarlo così forte che gli altri si mettevano paura e scappavano. Così riusciva ad avere un po’ di tregua prima del prossimo agguato che comunque non avrebbe tardato ad arrivare. Le giornate di Giuseppe trascorrevano così, in infiniti combattimenti inframezzati da sprazzi di tranquillità nei quali anche la maschera del volto sembrava rilasciare la tensione come i muscoli delle braccia. La maschera da satiro che si trasformava in Dottor Balanzone. Sì, perché in quei momenti di calma assumeva un’aria da saggio bonario con gli occhi a scrutare il mondo sapendo di averlo capito sino in fondo. Ovviamente senza parlare, solo espressioni, beh diciamo un po’ Dottor Balanzone e un po’ Popeye con gli zigomi arrossati e prominenti.
Giuseppe dormiva sulla panchina nella piazzetta sotto i platani e vicino alla fontana. Dormiva per modo di dire, probabilmente solo qualche minuto ogni tanto, magari con un occhio chiuso ed uno aperto, sempre vigile e sempre pronto a respingere gli attacchi de gli uomini invisibili. Non poteva concedersi svaghi perché loro non gli concedevano tregua, giorno e notte e poi erano tanti, tanti e invisibili nel buio della notte, ma lui era sempre vigile e sempre pronto e riusciva a debellare attacchi e sortite. Una notte di novembre però qualcosa di diverso deve essere accaduto, nessuno sa cosa, nessuno era presente di lunedì con il primo freddo che cominciava a farsi sentire e il vento forte di libeccio che staccava le ultime foglie secche sui platani. Solo il mattino presto ci se ne accorse: vigili del fuoco, ambulanza, carabinieri nella piazzetta, tutti intorno alla panchina dove di solito dormiva Giuseppe. La zona era perimetrata e non ci si poteva avvicinare, si poteva solo rimanere a una trentina di metri a scorgere quel poco che si riusciva attraverso la calca tutta intorno alla panchina. Non si vedeva nulla, ma si sentiva un forte odore di bruciato, un odore acre nell’aria ancora piena di diossina; di base era quella puzza che fa la plastica quando prende fuoco, di sottofondo quella della benzina. C’era stato un fuoco con della plastica che ha bruciato. Le panchine erano fatte di sbarre di ferro rivestite di plastica spessa blu, tutti pensarono che fosse stata bruciata la panchina, forse con qualcosa sopra: cartoni? cassette di legno? sacchi della spazzatura? tutti quelli che erano lì pensarono una di queste cose. Tutti pervasi dell’idea che fosse stato un gesto stupido, inutile, da teppistelli, pericoloso se avesse attecchito qualche albero lì vicino, un gesto deplorevole che “gli e la farei vedere io…” Però se c’era l’ambulanza un motivo doveva esserci, non erano mica lì per la panchina o per gli alberi! “Ci sarà qualche ustionato” pensarono tutti. Così fra supposizioni, commenti e improperi per una mezzoretta, fino a quando qualcuno non intravide là in fondo una barella con sopra un sacco. Un sacco chiuso con la cerniera, pieno, con in evidenza una forma; una forma umana dentro il sacco chiuso. “C’è un morto!” C’era un morto dentro il sacco, un brivido, stupore; c’è sempre un brivido quando si vede un morto e spesso il gesto della mano verso gli occhi o la bocca. Un Carabiniere si avvicinò alla piccola folla radunata sul lato opposto della piazza, sì avvicinò come per tranquillizzare, per non lasciare fomentare ipotesi o prospettare scenari. Subissato di domande sul chi e il come, facendo quei classici gesti ampi che invitano alla calma: “abbiamo rinvenuto un cadavere completamente ustionato, stiamo facendo le indagini necessarie per l’identificazione”. Brusii, domande, supposizioni, forse sgomento e paura. Poi come per tranquillizzare: “gli indizi lasciano presumere che si possa trattare del barbone che era solito dormire su quella panchina”. Monosillabi, qualche sospiro, movimenti ondulatori del capo; ebbi l’impressione che si stesse sciogliendo una tensione latente fra gli astanti. Qualche commento, per lo più come se l’accaduto rientrasse in una possibile logica, la logica conseguenza di un “qualcosa”, il frutto di una semina… ed in effetti la tensione latente si sciolse. A parte questa logica da quattro soldi (che è un po’ pregiudizio e un po’ tanto razzismo nella sua forma più sottile, subdola e strisciante: classismo), era logico che quel rogo non si fosse appiccato spontaneamente da solo, che la benzina non fosse piovuta proprio lì e solo lì portata dal vento di libeccio, che nessuna fiamma fosse fuoriuscita dal rubinetto della fontana. Era logico che quel fuoco fosse stato acceso da qualcuno, come ora diveniva chiaro che quell’odore acre nell’aria non era solo la diossina della plastica bruciata. Era l’odore della carne umana viva che brucia, una puzza tremenda, nemmeno alleviata da qualche aroma, da qualche erba, pianta, seme, solo accentuata dalla benzina cosparsa. Nei tanti pubblici roghi appiccati dai “giusti” nei secoli quella puzza veniva, a seconda del peccato, coperta da qualche fragranza naturale, tanto per rendere più gradevole la partecipazione delle folle. Ad esempio, se venivi “giustamente” arso vivo per sodomia bruciavi avvolto nel gradevole odore dei semi di finocchio, a proposito di come nascono gli insulti…
Ma torniamo a Giuseppe e a quella mattina. A quella piccola folla tentennante il capo e quasi sollevata. Giuseppe era morto lì, sopra la panchina dove viveva, morto tra le fiamme. Io sono certo che non le avessero appiccate gli uomini invisibili, anzi certissimo, perché nel loro pianeta invisibile si fanno agguati, imboscate, ci si cazzotta, ma non ci si arde vivi. Nel nostro pianeta visibile e tangibile invece può accadere ma, si sa, sono ragazzi in una notte fredda di novembre che non c’è niente da fare… E Giuseppe che per anni ha combattuto indomitamente gli uomini invisibili è morto lì per una mano visibile seppur nascosta nella notte. E Giuseppe sarà mancato, forse, soltanto a gli uomini invisibili (si racconta che siano state trovate tracce di lacrime invisibili per un po’ di tempo in quella piazzetta). Gli uomini visibili di quella piccola folla vennero distratti da una brusca frenata di un’auto sull’asfalto e da qualche soffocato verso di dolore. La folla si spostò di qualche decina di metri per vedere cosa fosse successo: una macchina aveva investito un cagnolino che stava gemendo a terra. La folla si impietosì immediatamente, si avvertiva nell’aria quel senso di umana pietà e finalmente ci fu un motivo condiviso per spendere qualche lacrima visibile e additare e insultare un colpevole visibile.
Giuseppe morì quella notte avvolto dalle fiamme e… nessuno potrà mai dire che sia… “morto come un cane”…
Renato Barletti ©2017
Potete seguire Renato ogni sabato in “Suggestioni e percorsi poetici”