(N.1 al mondo su 313.000 entries con la rubrica “Suggestioni e percorsi poetici” come potete verificare qui – ed anche nel contesto di “Art & Culture” N.1 su 60.700.000 come potete verificare clickando qui )
————————————
traduttore /translator friendly: please click here to find and install
Una mattina milanese con una pioggerellina fine fine tra le prime luci di un’alba repressa, luce che fatica a manifestarsi sotto le nuvole basse nell’aria fresca. Avevo ventisette anni e quella mattina sintetizzava anni di passione, una passione esplosa prestissimo fra racconti di mio padre, giornali, libri e strada. Stavo per partire per la Milano Sanremo: un sogno. Tanti chilometri macinati per essere lì stamattina a mettermi un numero sulla schiena e partire sotto la pioggerellina, via! La pianura passa quasi anonima con la luce piatta: non passa mai. La ruota di quello davanti e poco altro, qualche brividino di freddo con le molte cose addosso che iniziano a bagnarsi, anche se la pioggia sta smettendo. Durante le corse in bicicletta è difficile poter pensare ad altro che non sia la corsa, poi se è una come questa! Verso Pavia la strada è già, oppure ancora, asciutta, ma l’aria accentua la sensazione di umidità sulla pelle, nelle ossa. Sento l’inverno che non è ancora finito e sembra ci tenga a manifestarsi; a bordo strada tanti spettatori, soprattutto durante l’attraversamento dei paesi, tutti vestiti con giubbotti pesanti, cappellini di lana, guanti. Come me, come gli altri del gruppo tutti con mantelline, gambali, manicotti, copriscarpe, guanti pesanti; insomma in tenuta invernale, ma dopotutto il diciotto di marzo è inverno, no? Pedalo, pedaliamo fino a che sullo sfondo incominciano a delinearsi i profili di montagne, su uno sfondo che si avvicina sempre di più e poi la pianura smette di essere pianura e la strada inizia seppur lievemente a salire. Inizia il Passo del Turchino, stiamo salendo sullo sfondo della pianura lasciandoci alle spalle il già pedalato, cosa ci aspetterà dopo, chi lo sa? Intanto l’asfalto torna ad essere bagnato, ma non per la pioggia, c’è neve a bordo strada, non molta accatastata dagli spazzaneve. C’è neve a bordo strada sino alla galleria in cima, una galleria che buca la montagna e passa di là, una vera e propria porta fra due mondi, perlomeno fra due paesaggi, due scenari. Tutto è cambiato dall’altra parte: niente neve, c’è il sole, il cielo è azzurro come il mare laggiù in fondo; è piacevole buttarsi in picchiata. In fondo gran parte di noi nutriva la speranza di trovare questa luce alla fine del tunnel, questa luce e quest’aria. Si fa presto a scendere sino all’Aurelia e via con il mare e il sole a sinistra e le montagne a destra, via verso Sanremo, verso la fine di questo viaggio. Sento nel naso un’odore familiare, quell’odore del mare portato dal vento, sento finalmente svanire quella sensazione di inverno dentro mentre il sole scalda i vestiti, che ora sono troppi. Mi spoglio lentamente, come per assaporare questo cambiamento, che non è solo di clima, ma di stagione: la primavera che comincia a presentarsi. Via i guanti spessi, via i manicotti, i gambali, la mantellina, un pezzo dopo l’altro in pochi minuti. Maglia a maniche corte, pantaloncini e calzini bianchi. Guardo gli altri che si sono spogliati e il gruppo ha cambiato aspetto: i mille colori di un’esplosione di primavera, come il gerbido a bordo strada, prima marrone di terra nuda o bianco di neve ed ora verde di erba selvatica riempita di giallo, violetto, arancione o il viola e il rosso delle bouganvilles arrampicate sui muri di pietra. Anche i loro profumi si infilano nelle narici gonfie di salsedine, odori e colori intensi e variopinti con la testa sulla corsa ma non più solo sulla corsa. Pensieri che sbocciano come fiori, ricordi legati ai profumi, al mare, al vento si inseguono incrociandosi con le ruote e le schiene. Il mare a sinistra e la montagna a destra e poi la montagna che cambia poco dopo Savona: l’Appennino si trasforma in Alpi che si innalzano e si imperviano ancora di più e schiacciano sul mare ancora di più. La strada sembra un corridoio in bilico, un terrazzo ininterrotto con qualche balconcino sulle curve. Ecco che inizia Capo Mele; Capo Mele che avevamo visto là in fondo appena arrivati sul mare, sembrava anche esso la fine del paesaggio, la fine dell’orizzonte dopo il quale c’è solo mare. Un mare che fa continuo con il cielo nell’intercalarsi delle sfumature di azzurro, un azzurro saltuariamente variegato di schiuma, un azzurro che là sotto Capo Mele diventa verde come le pinete sui declivi scoscesi, basta avere un attimo per guardare, per sporgersi. Certo c’è la corsa, ma mi sporgo un po’ con lo sguardo e ritrovo mille spunti come fossero tante piccole madeleine che mi riportano a momenti, sensazioni, primavere sognate, attese e poi vissute. Ma c’è la corsa e bisogna pedalare sempre più velocemente, pedalo cerco di rimanere attaccato, ma il pensiero si vuole cullare e ha poca intenzione di pensare alla corsa. Capo Cervo e le rocce precipitano sino a formare strisce che si infilano nel mare, Capo Berta ancora più verde e ancora più scosceso con il mare più cattivo là sotto, tutto questo paesaggio che adesso è proprio quello che ho nel sangue. Il sole di tre quarti sulla sinistra a illuminare le colline all’abrigu e inscurirle all’ubagu, il verde che si trasforma in nero e il nero in verde durante ogni giornata. La brezza a portare il profumo delle onde che sbattono sulle rocce o si perdono sulle spiagge. Al diavolo la corsa, pedalo nella libertà del pensiero su e giù per capi e promontori e gli occhi tutti intorno a spaziare dalle montagne all’orizzonte del mare increspato. Sino al Poggio quando ormai la corsa è andata e io passo dopo un po’ fra lo svolazzare di carte sacchetti e cos’altro non so e la gente che sta andando via. Gente in camicia o con giubbottini leggeri al sole del bordo strada a guardarci e a vivere la primavera. E noi che stamattina siamo stati a lungo nell’inverno e l’abbiamo scoperta poco per volta sino all’esplosione in Riviera e al suo manifestarsi sempre più avanzata in questa terra dove la primavera è più lunga che ovunque. E poi l’ultima discesa fra ulivi, serre e fasce a garofani, rose e anemoni sino a dentro la mia città entrandoci da questa strada percorsa migliaia e migliaia di volte. Percorsa in ogni stagione dell’anno e della vita, ma la sensazione provata quel giorno è stata unica. Come se partecipare a quella corsa mi avesse fatto scoprire il sapore intenso di qualcosa che in fondo qui si dà sempre per scontato. Un valore che è caratteristica unica e da allora ogni primavera la vivo come esplosione interiore di vita… soprattutto certe primavere che a volte iniziano a gennaio o magari anche a novembre saltando come d’incanto l’inverno.
Renato Barletti ©2017
Potete seguire Renato ogni sabato in “Suggestioni e percorsi poetici”