La Poesia per propria natura utilizza un linguaggio ricercato e si affida a metafore che possono avere una difficile lettura o diverse possibilità interpretative. Personalmente mi auguro che ogni singola poesia sia immediata, ma non sempre è possibile, non sempre è così; per cui la complicatezza del testo può far sì che il lettore debba avventurarsi in un percorso interpretativo. Ci sono due tipi di complicatezza: la naturale “cura” dove ogni singola parola ha un significato ed una collocazione precisa all’interno del testo e una ricercatezza ostentata dove il linguaggio non è che “esercizio di stile” e le parole sono lì perché appaiano “belle”. Ovviamente considero questa seconda possibilità  semplicemente la “non poesia”, la ricerca di uno stile esasperato, la maschera per nascondere un volto senza occhi né bocca. Il problema è come comprendere tale differenza, con l’analisi del testo? con la “versione in prosa”? con l’ausilio di un dizionario dei sinonimi e delle metafore? Forse semplicemente con una “seconda lettura”… La differenza potrebbe essere fra anatomia ed autopsia, fra l’analisi di un corpo vivo ed uno morto. La difficoltà non si ferma qui, dopo una drastica scrematura inizia l’interpretazione vera e propria ed allora, lettori, tocca a voi secondo le mille possibilità che offre una “opera aperta”.

Ora provo a fare “anatomia” sul testo di una poesia pluripremiata, ma (ahimè!) non so quanto o come compresa, sempre premesso che ogni interpretazione è lecita.

NEL VIAGGIO o rinascita di una stella

Giunto all’imo nel tuffo nietzschiano verso l’abisso

ho visto le sagome dei mostri dormienti

vellicato le purulenti loro verruche

ho fatto l’amore con ossidati vuoti scafandri

ruzzolandoci nel brago di un ciarpame decrepito

vomitato fin quaggiù a sommo diniego

ho vagabondato nella caligine fosca

della palude dei desideri abortiti di tanto in tanto

danzando con gli spettri di vecchie o giovani signore

al ritmo e l’armonia dell’orchestra dei rospi

rimbiancando i muri a vetuste cascanti fortezze

pattinando spensierato sulla melassa ghiacciata

di soverchi discorsi troppe volte ascoltati

scagliando nel vuoto boomerangs senza ritorno

persi nella coltre degli attimi fuggenti mai afferrati

 

…Quindi uscito a riveder le stelle

ho naufragato l’occhio nella miriade di fuochi fatui

specchi sinonimi della medesima luce riflessa

scomposta e ricomposta negli ultimi colori rimasti

nell’ultimo caleidoscopio accessibile:

il bianco e il nero

inutile agitarsi dentro la camicia di forza

per cercare i grigi gli sfumati o i colori più intensi

che questa fosforescenza non regalerà         MAI

(Passeggero sul treno delle emozioni represse

ho fuggito la pianura dell’individualismo appiattito

dove l’impero dell’ambizione d’avere ha cacciato

ogni superstite puntigliosa prurigine d’essere)

esule ho pelato patate sul veliero della fantasia

per superare incolume l’oceano delle velleità

sordo agli illusori canti di ovvie malcelate sirene

ramingo o signore capopopolo o eremita

ho raggiunto il Capo Horn della vita…

E si apre un’ampia via per lo scontato ritorno

alla brumosa normalità e al macabro oblio…

invece prendo la guida dei razzi dell’insondato

unico carburante           la suprema volontà

estrema meta                 quel fioco astro lassù

irrinunciabile scopo      riaccenderlo!!!!!!!


La poesia inizia con “il tuffo nietzschiano verso l’abisso”, riferendosi alla teoria del filosofo tedesco secondo la quale bisogna sempre “cadere prima di poter pensare di volare”. Ma gli inferi, interiori o metaforici che siano, richiamano al viaggio dantesco introdotto con l’utilizzo dei termini imo e brago; inferi popolati da mostri, tentazioni, palliativi, abitudini che spesso risulta più facile avallare che osteggiare. Magari dedicando parti importanti di sé a rapporti, aspirazioni, occupazioni sterili e prive di ogni possibile contenuto, con la consolazione di qualche piccola goccia di effimero piacere. Quindi ci si trova a vagabondare nella “palude dei desideri abortiti”; altro richiamo dantesco, la palude Stigia (etimologicamente fiume dell’odio) con tutti i significati di inferno vero e proprio e di luogo dove il movimento, il cambiamento, la proiezione risultano perlomeno difficoltosi. Tale ambientazione è proprio l’inferno perché ogni desiderio abortito sull’altare del tran tran è peccato, un peccato gravissimo contro la natura stessa dell’uomo. E nella palude del conformismo e dell’adeguatezza ci si possono anche ritagliare momenti che aiutano la sopravvivenza, soprattutto nella dimensione del non essere se stessi. Sporadici o ripetuti tentativi di uscire dalla morsa del fango proprio come le braccia che cercano di tenersi fuori dalla palude che inghiotte, proprio come tentativi di cogliere nella nebbia attimi fuggenti e salvifici che possano indurre il cambiamento. Attimi che bisogna assolutamente afferrare affinché possano dare la spinta a proseguire il viaggio in altra direzione.

Tirare fuori la testa dal fango vuole dire tornare a vedere le stelle, seppur da lontano ma con uno spiraglio di infinito che si riesce ad aprire. A questo punto non è che il viaggio sia terminato, tutt’altro forse inizia solo ora; un viaggio ambientato nel mondo reale, un mondo che propone modelli uniformi. Il bianco e il nero sono le uniche tonalità e la ricerca di “qualcos’altro” risulta difficoltosa. Le realizzazione nel mondo è possibile solo se il bianco e il nero diventano gli unici colori riconosciuti e possibili nella nostra vita, senza ammettere o cercare spiragli di barlumi differenti. Ovviamente la poesia sottintende che questo è impossibile, almeno per questo particalare “viaggiatore”. Ma si prova lo stesso ad “essere se stessi” anche se ci si sente come imprigionati in quattro mura, si prova sino a che ci se la fa, sino a che si riesce ad immaginarne la possibilità… e poi inizia un altro viaggio.

Un cammino impervio e solitario lungo sentieri spesso impraticabili o mai praticati da nessuno. Il corsivo fra parentesi pare un sunto del pregresso, una sintesi per ricordare da dove si viene e direzionarsi per dove si potrà andare. E il viaggio riprende con grande umiltà attraverso piccoli/grandi passi, il viaggio che innanzitutto avviene dentro sé stessi. L’immagine di essere nelle cucine del veliero della fantasia a pelare patate mi ricorda tanto Paperino che si imbarca clandestino senza un cent in tasca e quando viene scoperto è costretto a “pagarsi” il viaggio lavorando da sguattero. In fondo chi è più viaggiatore di Paperino con quel suo eterno vestito da marinaretto? E via sul veliero della fantasia per superare le tempeste dell’oceano delle velleità, sì perché anche ad essere o a cercare di essere se stessi ci si può ingannare. Questa volta da soli, inseguendo sogni inconsistenti e fini a se stessi, chimere magari paventate, proposte o indotte dagli echi di antiche seduzioni portate dal vento. Ma sull’oceano il vento soffia con grande veemenza e potrebbe essere molto convincente, direi ammaliante; ed è qui che si gioca la partita decisiva, magari legati all’albero maestro con le orecchie tappate oppure con il timone fra le mani a lottare contro i flutti. Navigando in solitaria o a capo del vascello, da ricchi o da poveri. Superata la tempesta si raggiunge Capo Horn: la conoscenza di se stessi, l’autocoscienza. Capo Horn è la chiave di volta, il punto più profondo di sé, l’essenza della nostra anima.

Si può tornare nel mondo, forti della consapevolezza di cosa si è e di cosa si vuole, consci che il mondo è restato quello che era prima, ma viverci dopo questo viaggio catartico è tutt’altra cosa. Prese le misure di sé e del mondo, si trovano le sfumature, gli spiragli, i contrasti e pare che tutto l’appiattimento non abbia nemmeno reso la terra un disco, come invece ci appariva prima. La terra è una sfera sospesa nell’infinito in mezzo a miliardi di altre sfere, più grandi e più piccole, più o meno luminose, più o meno tante cose. L’equilibrio dell’esistenza si raggiunge e si perpetua dopo una profonda conoscenza di se stessi e “dopo” la vita diviene un’altra cosa, anche senza il mare, anche nella nebbia di pianure interminabili. Solo se la volontà ha preso il sopravvento sulla velleità. Ma… il viaggio può diventare infinito, può essere uno stato esistenziale, il motivo stesso della vita: un sogno che si rinnova continuamente e che ti invita a realizzarlo. Le pulsioni a “vivere di viaggio” possono essere varie, chiamale aspirazioni, ambizioni, scopi, finalità. L’arte è senz’altro un viaggio che si rinnova continuamente, un viaggio alla ricerca di nuovi mari, di nuove rotte, destinazioni, lidi o pianeti lontani. La ricerca nell’infinito di barlumi di luce e di colore nelle mille sfumature possibili attraverso le quali immaginare o leggere se stessi, il mondo e il senso del viaggio.

Il viaggio partito dagli inferi fa rotta verso le stelle… forse…

Renato Barletti ©2017

Potete seguire Renato ogni sabato in “Suggestioni e percorsi poetici