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… Ricordo quado ero bambino che il, mi pare, mercoledì sera finito carosello c’era un vecchio uomo con capelli e barba bianca e una voce cavernosa che faceva il riassunto della puntata precedente dello sceneggiato che sarebbe andato in onda da lì a pochi minuti. L’uomo era Giuseppe Ungaretti e lo sceneggiato “Odissea”, ovviamente non leggeva un mero riassunto ma illustrava secondo la propria visione l’opera del primo vero poeta e le gesta del personaggio protagonista… che poeta! e che personaggio! Ungaretti raccontava di Ulisse e delle sue avventure, svoltesi fra realtà e mito quasi trenta secoli prima, come fossero accadute durante la settimana nell’intervallo fra una puntata e l’altra, almeno così sembrava ad un bambino di sei o sette anni. Così sembrava perché in effetti così era, così è. Ovviamente Ungaretti lo faceva intenzionalmente, non secondo una strategia di marketing divulgativo semmai in virtù di una “normalità espressiva” sul filo di un racconto ancor più che immortale, perpetuo. Ulisse ha in sé, Ulisse rappresenta, l’Odissea racconta caratteristiche universali riscontrabili sempre nell’individuo durante tutta la vicenda umana. I poemi omerici sono diventati l’archetipo di vari generi letterari e l’aedo cieco il padre della Letteratura. In particolare dall’Odissea nasce “il romanzo di viaggio d’amore e di avventura” e poi deriva il “genere romanzo”. Ulisse non è mica solo un personaggio dell’Iliade ed il protagonista dell’Odissea, lo sarà per secoli a venire di tragedie, poemi, drammi, commedie e romanzi, addirittura di una trilogia fantasy e coprotagonista con Batman di un libro a fumetti. Un personaggio per tutte le epoche e tutti i generi: il personaggio dei personaggi della letteratura. Ora non faccio un dotto excursus su ogni opera in cui compare Ulisse (per altro facilmente reperibile in testi ed in rete) ma vorrei provare a rispondere ad una domanda che (mi) pongo: cosa ha Ulisse in sé che lo rende universale, quali tratti, quali caratteristiche?
Mi verrebbe da chiudere brevemente l’articolo rispondendo sinteticamente: è umano. “Meno male” direte voi… invece vi tedierò ancora un po’…
…Ulisse si fa legare all’albero maestro per non cadere nelle tentazione indotte dal canto delle sirene ammaliatrici, è ben conscio delle proprie debolezze e deve ricorrere ad un atto di suprema volontà per superarle. Senza quelle corde sarebbe perso, lui con tutti i propri compagni di avventura e quelle corde rappresentano l’ausilio che la ragione dà all’uomo per contrastare l’istinto. Ma la ragione bisogna averla, bisogna saperla usare, bisogna volerla usare. Pertanto è l’uomo a scegliere, anche a scegliere di contrastare forze divine in virtù di un libero arbitrio ante litteram. Utilizzare la razionalità è una scelta, è l’affermazione di se stessi, è un atto di orgoglio: Ulisse è il primo uomo moderno. La critica letteraria è abbastanza concorde nel vedere nei due poemi omerici il passaggio fra due epoche: da quella degli Achei a quella dei Greci, dal regime monarchico a quello della polis, dall’aristocrazia ai cittadini, aggiungerei dagli eroi agli uomini. Personalmente vorrei sottolineare un episodio dell’Iliade, quello dello scontro fra Achille ed Ulisse: tra la forza, l’impulsività e il ragionamento, la strategia. Achille è il protagonista, il mattatore, dell’Iliade e Ulisse uno dei personaggi, ma Troia cade e la guerra dopo dieci anni finisce grazie ad uno stratagemma di Ulisse. Forse il passaggio avviene già nell’Iliade. Gli eroi hanno sempre un seppur piccolo punto debole che li fa ritornare umani e mortali; gli uomini grazie alla ragione possono essere mille volte più efficaci. Poi Ulisse parte per tornare a casa, ma la furia divina si abbatte su di lui ed i suoi compagni di viaggio per dieci lunghi anni di naufragi e prigionie, ma anche di leggendarie lotte con efferati mostri e di amori traditi e traditori. Il ritorno diventa l’avventura di un uomo contro la furia divina che gli si scatena contro, se quell’uomo non fosse stato Ulisse non avrebbe avuto nessuna chance di farcela. Immaginatevi chiunque altro a combattere a mani nude o con una spada contro il dio del mare. Ulisse lotta, inventa stratagemmi, compatta i suoi compagni di viaggio. Ma Ulisse è un uomo che si commuove e piange quando una sera, in incognito alla corte dei Feaci, ascolta il poema del cantore cieco (anche lui) Demodoco sulla guerra di Troia e sulla conquista finale. Piange e si rivela, afferma: “io sono Ulisse” con le lacrime agli occhi. Quell’umanità mostrata così spontaneamente induce i Feaci, che erano grandi navigatori, ad aiutare Ulisse e lo riaccompagnano ad Itaca prelevandolo mentre dorme e lasciandolo su una spiaggia della sua amatissima isola. Un senso di umana pietas lo riporta a casa; immediatamente dopo una divinità su quella spiaggia lo aiuta trasformandolo in un vecchio, ma gli dei greci più che esseri sono potenze, più che reali sono simbolici. L’aiuto “divino” arriva da Pallade (Athena), dea della sapienza, delle arti tecniche e manuali, della tessitura e della strategia militare; beh il simbolismo mi pare chiaro. Le sembianze da vecchio mendicante servono per non farlo riconoscere dai Proci che occupavano il palazzo, tenevano rinchiusa Penelope e di fatto gestivano il potere. Qui avviene il vero passaggio politico, quella trasformazione da regno a città stato che determinerà l’età d’oro della civiltà greca e rappresenterà le fondamenta della civiltà occidentale. I Proci sono i nobili che contornano e sostengono ogni monarchia ed Ulisse (è vero che è, o meglio era dieci anni prima, il re) combatte da solo, da individuo contro di loro annientandoli e dando vita ad un nuovo ordinamento. I poemi omerici sono il racconto mitologico della trasformazione del mondo e Ulisse è il vettore della trasformazione compiendo lo strappo decisivo da eroe a uomo, da re a capo politico, da nobile a cittadino, da vittima della furia divina a uomo libero.
Ma visto che la letteratura è un filo rosso che si dipana nella storia del mondo e Ulisse il personaggio archetipo dell’uomo moderno, del viaggiatore, dello scopritore, della ragione, eccolo che torna protagonista di nuove opere come se continuasse a vivere per sempre arricchendosi la personalità di tratti e sfumature cangianti. Fra le molte mi fermo ad evidenziare “l’Ulisse dantesco” che sembra continuare la vicenda omerica proprio sullo stesso filo conduttore. Dante vive molti secoli dopo in un’epoca molto differente nella quale il centro del mondo e della vita degli uomini è Dio, una divinità incombente, onnisciente ed onnipotente molto diversa dalle “potenze” greche. Solo Dio possiede la conoscenza assoluta e nessun uomo ha facoltà di accedervi. Ma Ulisse ha innato l’impulso a “divenir del mondo esperto”, a scoprire i segreti del mondo attraverso la tecnologia che è stato è e sarà in grado di approntare: l’uomo moderno appunto. Così aver raggiunto Itaca, essersi ricongiunto con Penelope ed il figlio Telemaco ed aver ristabilito un nuovo ordine politico non gli basta, non nutre abbastanza il suo desiderio di conoscenza e di autonomia. In fondo questa è la sua natura e deve assecondarla per essere se stesso. Così una mattina decide di partire nuovamente per mare a capo di una spedizione, direzione le Colonne d’Ercole, obiettivo superarle. Andare oltre i limiti del mondo per allargarlo, andare in cerca dell’ignoto per svelarlo, per accrescere il campo della conoscenza umana. Questo è l’anelito che ha portato l’uomo ad evolversi, che lo ha indotto a spostare un po’ più in là limiti, confini, chiusure dell’orizzonte. Risulta chiaro che nella storia ci siano state epoche e situazioni meno progressiste nelle quali essere Ulisse risultava difficile se non impossibile. Dante vive al culmine di una di queste epoche e concettualmente ne condivide l’impostazione, ma… Ecco qui che si rivela il genio assoluto del Fiorentino che, pur relegando Ulisse all’inferno, fa continuamente trasparire fra le righe una profonda ammirazione per il Personaggio, per il suo personaggio. Ulisse è fra i dannati non per il peccato della tracotanza di sfidare le leggi divine, lo è in quanto consigliere fraudolento, mentitore in virtù dell’inganno del cavallo di Troia. Se andiamo a ben giudicare in effetti è condannato due volte perché il suo viaggio oltre l’ignoto verrà punito con la morte per aver osato sfidare Dio in un atto assolutamente laico, impensabile all’inizio del XIV secolo. Qualora fosse possibile non raggiungere ma avvicinarsi alla conoscenza dell’assoluto, lo sarebbe in virtù della fede, della dottrina tomistica o della santissima illuminazione di un’anima beata: Beatrice ad esempio. Ma Dante/Minosse non lo condanna, forse non lo giudica nemmeno, per questo e forse contro le proprie stesse intenzioni, lo consegna alle epoche future come il prototipo rinnovato dell’uomo moderno. Il desiderio di conoscenza rende Ulisse disposto a rischiare tutto, la vita in cambio di qualche risposta alle domande arcane, in cambio dell’aver cercato nuove vie e nuove rotte, in cambio dell’averci provato. Così Dante partorisce quelli che sono, forse, i due endecasillabi più conosciuti della letteratura di ogni epoca, definendo il destino dell’umanità:
“Fatti non foste a viver come bruti/ Ma per seguir virtute e conoscenza”
Il resto viene da sé. In fondo lo stesso Dante e lo stesso suo maestro Virgilio da chi derivano il topos letterario del viaggio agli inferi? La differenza sta nelle epoche e ci sarebbe da scrivere un altro articolo sulle motivazioni ed i sensi delle tre catabasi, ma mi pare più compito da critici letterari che mio. Qui voglio solo evidenziare come il viaggio agli inferi rappresenti anch’esso una ricerca attraverso se stessi e dentro il “sapere” pregresso per cercare risposte, per interrogarsi sul proprio destino, per poter andare incontro a cose nuove con spirito nuovo. Sarà Tiresia, il veggente cieco (anche lui), a predire ad Ulisse le mille traversie che avrà per i mari e poi ad Itaca, a predire anche un successivo altro viaggio che dovrà intraprendere. Non dirà altro e Omero non approfondirà questo aspetto, lo farà Dante nel Canto XXVI dell’Inferno spingendolo oltre le Colonne d’Ercole, oltre i confini del noto, oltre i limiti umani. Limiti umani che personalmente reputo sempre oltre il punto di vista delle epoche e dei soggetti e che considero delle proiezioni prima ancora che dei luoghi, forse luoghi al di là di ogni orizzonte palpabile. E il topos del viaggio agli inferi è stato rivisitato in ogni epoca sulla scia di Ulisse, Omero, Dante e Virgilio. Ma per rendere ancora più significativo il topos letterario bisogna ricordare che il primo viaggio agli inferi documentato dell’umanità è scritto in cuneiforme all’interno dell’Epopea di Gilgamesh circa diciotto secoli prima di Omero. Gilgamesh è l’eroe, ma anche un re divino Sumero ed anche una divinità delle religioni mesopotamiche… forse è l’archetipo fra mito e mondo reale sul quale Omero disegna Ulisse archetipo dell’uomo moderno. Per la proprietà transitiva Gilgamesh potrebbe essere l’archetipo originale… o forse ce ne sarà stato un altro o ce ne saranno stati degli altri in epoca preletteraria… o forse semplicemente quell’archetipo così bene rappresentato da Ulisse non è altro che un aspetto irrinunciabile dell’animo umano.
Avevo intenzione di concludere il discorso su Ulisse arrivando a Joyce, ma l’articolo mi pare possa terminare qui e la divagazione sul viaggio continuerà in una terza parte.
Renato Barletti ©2017
Potete seguire Renato ogni sabato in “Suggestioni e percorsi poetici”