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“Vivo della poesia come le vene vivono del sangue”

Ecco Antonia Pozzi, poeta e fotografa alla continua ricerca della propria interiorità. In questo verso rivive il Crepuscolarismo intimistico di Sergio Corazzini con il quale Antonia condivide la percezione di un vuoto esistenziale dietro al volto delle “cose” come ci appaiono. Rivive anche la grande metafora di Walt Whitman sul sangue come aspetto più intimo dell’uomo e della Poesia che nasce dallo spillare del sangue dalle vene, della parola che diventa espressione dell’anima. Fra Crepuscolarismo ed Espressionismo nasce e vive tutta la poesia di Antonia Pozzi e potrebbe apparire un ossimoro la convivenza di due correnti così  differenti, opposte per certi versi. Ma è l’aggettivo intimo il legame fra le due nella ricerca dentro di sé del senso dell’esistenza per giungere alla scrittura e liberare le poche gioie e la profonda angoscia interiore. I suoi versi appaiono spesso sassi, rasoiate, scagliati in aria, frutto di un processo di perpetua interiorizzazione con improvvisi salti ed urli fuori di sé. Quello che fa grande, a mio avviso, Antonia Pozzi è il manifestare questo enorme peso esistenziale in una forma e con argomenti lievi, sembra un pittore che usa quasi esclusivamente colori pastello con alcune piccole ma significativissime “macchie” di rossi, neri, verdi intensi e decisi. Tutto ciò nello scenario della Poesia italiana di quegli anni ancora inebriata della straripante retorica dannunziana o proiettata nelle eccessive ma spesso vuote sperimentazioni futuriste. Apro e chiudo una parentesi: potrebbe sembrare che abbia intenzione di scrivere un articolo di critica letteraria (cosa che io non faccio mai), ma ho voluto aprire il racconto di Antonia Pozzi in questa maniera per collocarla nella sua epoca e quindi premettere che scriverò di un Poeta che reputo grande, uno dei due che reputo davvero grandi del Novecento italiano.

Antonia nasce in una famiglia altolocata con madre contessa e padre avvocato di successo, un padre che ha sempre dichiarato il proprio “non amore” per la poesia e sempre (anche oltre l’esistenza di Antonia) si è profuso per ostacolare l’attività poetica della figlia. Eppure il nonno era Tommaso Grossi, poeta e narratore milanese contemporaneo ed amico di Alessandro Manzoni. Ma nulla da fare, la Poesia secondo il padre non era e non sarebbe dovuta essere una compagna della propria figlia, la quale invece cominciò a frequentarla molto presto e molto presto iniziò a scrivere poesie. Subito un rapporto contrastato, subito un’etichetta da rispettare contro un amore profondo, contro quell’esigenza che sappiamo essere imprescindibile per un Poeta. Pertanto:

AMOR FATI

Quando dal mio buio traboccherai
di schianto
in una cascata
di sangue –
navigherò con una rossa vela
per orridi silenzi
ai cratèri
della luce promessa.

L’amor fati nietzschiano  definisce il corretto atteggiamento del superuomo che accetta in tutta tranquillità il destino al quale tanto non può sottrarsi essendo egli stesso l’unico in grado di realizzarlo davvero. La poesia di Antonia Pozzi esprime proprio quel distacco dalle cose della vita per continuare la propria strada anche se costellata di solitudine, di sconfitte, di dolore. Perché tanto l’essere poeti, l’essere artisti innanzitutto è un destino al quale prima o poi, pro o contro tutto e tutti, non ti puoi sottrarre. Così Antonia scrive poesie sul suo diario in mezzo ad annotazioni e riflessioni durante le sue lunghe passeggiate sui Navigli, scrive parole che traboccano come una cascata di sangue, che sgorgano dall’intimo profondo, fra orridi silenzi e squarci di luce promessa. Le scrive e per lo più le tiene per sé con un fiero pudore, come se quella parte di lei che aveva bisogno di uscir fuori, e lo faceva con l’inchiostro/sangue su quelle pagine, ritornasse subito dopo nel proprio intimo da cui era sgorgata. L’intimità diventa un’intimità doppia, quel nascondere se stessi in nome di una facciata “normale” e più consona che molti Poeti hanno conosciuto e conoscono. Pubblicare, ma anche solo far leggere una tua poesia è una forma di outing, un dichiararsi, un dire al mondo: io sono un Poeta. E l’avvocato di grido della Milano protoborghese di inizio novecento non voleva assolutamente che sua figlia manifestasse una natura e una vocazione così eteree e lontane dalle cose che dovevano contare, dalle cose che invece per una rampolla nobile risultavano consone. E Antonia rilancia il concetto che diviene una vera e propria dichiarazione al mondo di quello che essa è e del proprio tumulto interiore:

UN DESTINO

Lumi e capanne
ai bivi
chiamarono i compagni.

A te resta
questa che il vento ti disvela
pallida strada nella notte:
alla tua sete
la precipite acqua dei torrenti,
alla persona stanca
l’erba dei pascoli che si rinnova
nello spazio di un sonno.

In un suo fuoco assorto
ciascuno degli umani
ad un’unica vita si abbandona.

Ma sul lento
tuo andar di fiume che non trova foce,
l’argenteo lume di infinite
vite – delle libere stelle
ora trema:
e se nessuna porta
s’apre alla tua fatica,
se ridato
t’è ad ogni passo il peso del tuo volto,
se è tua
questa che è più di un dolore
gioia di continuare sola
nel limpido deserto dei tuoi monti

ora accetti
d’esser poeta.

Meria Corti, l’illustrissima linguista e semiologa, compagna di Università e amica di Antonia ha scritto di lei: “il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi”. Un equilibrio vertiginoso, questa è stata la vita di Antonia Pozzi, la sua vita interiore sempre in bilico fra due mondi, fra due vite, fra l’espressione e l’inesprimibile. Proprio come il superuomo nietzschiano del quale però Antonia non possedeva né la forza indomita né la perseveranza, o meglio non le possedeva del tutto e quella parte che le mancava ha in fondo determinato la sua esistenza. Fra i chiari segni della fierezza di essere sui generis appaiono netti quelli del dolore e l’inadeguatezza al mondo, come fosse un superuomo ridotto. L’equilibrio/disequilibrio trionfa nell’espressionismo poetico delle sue poesie, sui fogli di quel taccuino dove lì Antonia è sicuramente superuomo e padrona del proprio destino:

LA VITA SOGNATA

Chi mi parla non sa
che io ho vissuto un’altra vita –
come chi dica
una fiaba
o una parabola santa.
Perché tu eri
la purità mia,
tu cui un’onda bianca
di tristezza cadeva sul volto
se ti chiamavo con labbra impure,
tu cui lacrime dolci
correvano nel profondo degli occhi
se guardavano in alto –
e così ti parevo più bella.
O velo
tu – della mia giovinezza,
mia veste chiara,
verità svanita –
o nodo
lucente – di tutta una vita
che fu sognata – forse –
oh, per averti sognata,
mia vita cara,
benedico i giorni che restano –
il ramo morto di tutti i giorni che restano,
che servono
per piangere te.

Il ricordo di un amore fra due forze contrastanti: il dolore del ricordo e di aver perso quell’amore e la gioia del ricordo e di aver vissuto quell’amore. Mi tocca a citare una canzone di Vasco Rossi per dire che davvero: “è tutto un equilibrio sopra la follia” (sempre ammesso che la follia esista in campo artistico, ed io propenderei per il no). Cos’è in arte la follia? Il vedere cose che altri non vedono? Provare ed esprimere sensazioni non comuni? Superare i limiti imposti, uscire dagli schemi? Non essere e non apparire “normali” è follia? Un tema lungamente affrontato e dibattuto a partire da quando Aristotele scrisse: “gli uomini eccezionali, in filosofia, politica, poesia o arte, sono manifestamente malinconici e alcuni al punto da essere considerati matti a causa degli umori biliari”. Antonia di quella malinconia era permeata, sempre fra distacco, ricordo e sogno; un distacco che la faceva rimanere sul bordo della vita a passeggiare ed osservare, ma:

IN RIVA ALLA VITA

Ritorno per la strada consueta,
alla solita ora,
sotto un cielo invernale senza rondini,
un cielo d’oro ancora senza stelle.
Grava sopra le palpebre l’ombra
come una lunga mano velata
e i passi in lento abbandono s’attardano,
tanto nota è la via
e deserta
e silente.
Scattano due bambini
da un buio andito
agitando le braccia:
l’ombra sobbalza
striata da un tremulo volo
di chiare stelle filanti.
Gridano le campane,
gridano tutte
per improvviso risveglio,
gridano per arcana meraviglia,
come a un annuncio divino:
l’anima si spalanca
con le pupille
in un balzo di vita.
Sostano i bimbi
con le mani unite
ed io sosto
per non calpestare
le pallide stelle filanti
abbandonate in mezzo alla via.
Sostano i bimbi cantando
con la gracile voce
il canto alto delle campane: ed io sosto
pensandomi ferma stasera
in riva alla vita
come un cespo di giunchi
che tremi
presso un’acqua in cammino.

…sempre pronta a cogliere ed accogliere un balzo di vita da quel mondo che le scorre intorno. I bambini che giocano, le campane che suonano a riempire e movimentare la via silente. Forse la dicotomia è fra silenzio ed espressione e l’espressionismo poetico è un grido anch’esso, un grido a tinte forti che, a volte, proviene dal silenzio. Ma per esprimere bisogna provare sensazioni e sentimenti ed ecco così che il distacco è apparente, momentaneo, mai sordo ai richiami del mondo circostante. Certo non ad ogni richiamo, solo a quelli che provocano sensazioni e sentimenti forti e il richiamo può benissimo provenire da piccole situazioni della vita quotidiana; per Antonia, assorta nelle sue passeggiate sui navigli o nelle montagne del lecchese, accade sempre così.

Il 1938 è l’anno della vergogna delle leggi razziali e dopo l’annuncio dell’entrata in vigore Antonia non è più la stessa. Diversi suoi amici vennero colpiti da esse e la sua malinconia congenita si accentuò ancor più, si senti come spenta, silenziata e scrisse all’amico Vittorio Sereni: “forse l’età delle parole è finita per sempre”. Chissà se c’è qualcuno che reputa più folle una giovane malinconica artista di ventisei anni di chi ha ideato, promulgato e fatto rispettare quelle leggi? Perché se c’è qualcuno che lo pensa… allora bisogna dar ragione a chi parla di artisti folli, sicuramente sì… Fatto è che Antonia in una notte di dicembre del 1938 allunga una delle sue solite passeggiate sino a Rogoredo nel parco dell’Abbazia di Chiaravalle dove ingerisce un tubetto di barbiturici abbandonandosi sull’erba davanti all’Abbazia, luogo di serenità per antonomasia in preda ad una “disperazione mortale”. Queste le uniche parole giunteci del biglietto di addio che aveva scritto: disperazione significa perdere la speranza e Antonia aveva ormai perduto ogni speranza nel mondo e nella possibilità di interagire con quel mondo, la possibilità che il proprio mondo trovasse punti di incontro con quel mondo. L’equilibrio si era rotto, in maniera definitiva ed irrecuperabile; lei non era un superuomo.. soltanto un Vero Poeta:

LA PORTA CHE SI CHIUDE

Tu lo vedi, sorella: io sono stanca,
stanca, logora, scossa,
come il pilastro d’un cancello angusto
al limitare d’un immenso cortile;
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita
sia stato diga all’irruente fuga
d’una folla rinchiusa.
Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell’anima
e la porta dell’anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l’assalto è più duro.
E l’ultimo giorno
– io lo so –
l’ultimo giorno
quando un’unica lama di luce
pioverà dall’estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l’onda mostruosa,
l’urto tremendo,
l’urlo mortale
delle parole non nate
verso l’ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,
con gli occhi aperti
sull’arcano cielo dell’ombra,
sarà
– tu lo sai –
la pace.

Antonia Pozzi aveva già scritto da un paio di anni questa poesia, questo presagio, quest’altro destino: nessun commento, questa poesia parla da sola esaustivamente e drammaticamente.

N.B.: il padre, il seminobile avvocato milanese, si adoperò per informare tutti che Antonia era morta di polmonite, facendo sparire il biglietto di addio e probabilmente “aggiustando” le poesie scritte dalla figlia sul taccuino.

Renato Barletti ©2017

Potete seguire Renato ogni sabato in “Suggestioni e percorsi poetici