Questo articolo è una traccia della prima lezione/conferenza/show sul Teatro. Un’idea nata per caso durante una cena in una serata di agosto chiacchierando di Teatro e chiedendoci quanto in fondo chi frequenta il teatro ed i teatri conosca effettivamente il Teatro. Personalmente ho l’abitudine di personificare idee e luoghi per poterli meglio conoscere e di conseguenza stabilirci un rapporto. Certo che quando si conosce una persona, o un’idea o un luogo seppur personificati, non accade secondo la linea temporale precisa dalla nascita in poi, ma in maniera casuale un aspetto dopo l’altro. Ricostruire la linea temporale significa tracciarne la vita, comprendere la consequenzialità degli avvenimenti e delle azioni, forse significa comprenderlo con razionalità. Ecco, il mio intento è delineare una frequentazione che spesso è “di pancia”, istintiva, naturale. Raccontare la vicenda plurimillenaria del Teatro non certo facendo storia del teatro e dello spettacolo, ma evidenziando aspetti significativi nelle sue origini e l’eredità che essi hanno lasciato. Questa “cosa” non vuole essere un’operazione meramente culturale quindi ci saranno salti di tempo, autori e generi di cui non parlerò, epoche lunghe qualche secolo per le quali spenderò tre o quattro parole e momenti, autori o opere dei quali parlerò a lungo. Questa è una suggestione fra mito e realtà, in fondo questa mia rubrica si intitola “Suggestioni e percorsi poetici di Renato Barletti“, no?
Il mito narra che verso l’inizio del VII secolo a.c. al poeta, autore di liriche corali, Tespi di Icaria venne l’idea di staccare l’attore dal coro per dare azione al dramma. Quel giorno Tespi ideò un genere artistico unico ed inarrivabile: la Tragedia Greca. Ma soprattutto quel giorno inventò il Teatro e la figura dell’attore; prima esisteva un coro che cantava la poesia, da allora c’è stata, c’è e ci sarà una scena, una rappresentazione dinamica di quello che si dice: l’attore che parla, si muove, dialoga ed interagisce. Tespi aveva costruito un carro di legno con il quale si aggirava nelle città greche portando il suo spettacolo: si fermava nelle piazze, sistemava il carro in modo da creare una ribalta, le quinte, forse i camerini e iniziava la rappresentazione. In principio egli stesso era l’unico attore e due ragazzi formavano il coro, in seguito anche essi incominciarono a recitare parti staccate dal coro. Così ha preso forma il Teatro, nello scetticismo di alcuni e con il coinvolgimento e il trasporto di molti attratti dal movimento, dall’azione. Il carro poi si evolverà in costruzione, in tutte quelle strutture che possiamo ancora ammirare, ma l’idea di Teatro ha sempre mantenuto la propria essenza girovaga, come “presenza” nei vari luoghi della vita. Così narra il mito e da allora la presenza del Teatro ad Atene, soprattutto ma direi nelle città greche, diventa centrale, fondamentale nella vita della poleis. Il Teatro è un luogo prima ancora di essere un luogo fisico. In primavera vi erano le festività che celebravano la rinascita della natura dopo l’inverno e la divinità che rappresentava ciò era Dioniso. Un piccolo inciso: le divinità per i Greci più che esseri sono potenze, emblematico che il re degli dei sia Zeus il dio del tuono, una forza della natura. Dioniso, tra le altre cose, rappresentava la capacità della natura di risvegliarsi dal tepore; la rinascita è catarsi, rinnovamento, nuova vita. Il mito (i miti della tradizione orale poi cantati dai Poeti, Omero ed Esiodo principalmente) rappresentava per i Greci non solo la religione, ma il fondamento stesso della loro identità. Il Teatro porta il racconto drammatizzato dei miti nel cuore della vita cittadina e lo fa con la nascita della sua prima forma: la tragedia. Nelle feste dionisiache primaverili si tenevano delle vere e proprie gare di teatro nelle quali ogni autore presentava una quadrilogia (tre tragedie legate fra loro per argomento e un dramma satiresco, composizione simile alla tragedia). La scena si componeva con gli attori che scendevano nell’agone, il primo attore che scendeva era il prot-agonista, mentre il coro rimaneva nel suo spazio deputato, l’orchestra. Già nella terminologia appare chiaro il dualismo fra i due contendenti della sfida: l’attore e il coro, la dinamicità e la staticità. A queste gare non assistevano degli spettatori, semplicemente tutta la popolazione, il Teatro non era svago, cultura, arte, ma semplicemente la vita della poleis. Era uno delle componenti principali della paideia di ogni cittadino; paideia in breve si può tradurre come educazione, ma di fatto essa consisteva nel processo di formazione ininterrotto del cittadino lungo tutta la sua vita. Quindi la rappresentazione di una tragedia era religione, vita politica e “scuola”; mai più ci sarà un momento della storia nel quale il Teatro rivestirà tale importanza nella vita dell’uomo. Le vicende raccontate erano molto forti, tragiche appunto, volutamente perché la Tragedia Greca “getta lo sguardo nell’abisso” per giungere a “dire sì alla vita”, toccando con mano l’orrore dell’esistenza, combattendoci contro, accettandone la compresenza e rimodellandolo secondo la propria rielaborazione positiva. Questo è lo spirito apollineo che incontra lo spirito dionisiaco fondendosi con esso e dando vita a prospettive nuove, questo è il significato e l’essenza della tragedia greca, direi della vita stessa, del cambiamento, del progresso. Sto usando la terminologia ed i toni di Friedrich Nietzsche nel suo “La nascita della tragedia greca dallo spirito della musica”. La musica, suonata dai satiri, era alla base dei riti orgiastici strettamente legati al culto di Dioniso e quello spirito si trasferisce nel teatro e la tragedia assume quella funzione. Lo spirito dionisiaco rappresenta l’istinto e l’impulso alla vita, lo spirito apollineo la razionalità e la capacità di ordinare sentimenti e cose; la fusione dei due produce armonia, equilibrio. Nietzsche individua nella Tragedia Greca questo percorso di esaltazione e sintesi dei due momenti, non possono esserci stelle danzanti se prima non si è precipitati nell’abisso. Quindi la Tragedia è momento identificativo e formativo, individuale e collettivo. Soprattutto nel primo periodo, quello di Eschilo, la Tragedia rappresenta un continuum fra mito, scena e vita dei cittadini. I teatri greci venivano costruiti all’interno delle poleis alle pendici di qualche declivio naturale e senza nessun fondale. Il declivio serviva a costruire le gradinate, ma anche ad essere un loggione naturale per tutti quelli che non trovavano posto a sedere, ed i teatri greci erano molto capienti di per sé, parliamo anche di venti/trentamila posti più o meno quanti erano i cittadini ateniesi (donne escluse, anche se alcuni recenti studi affermano che a teatro, unica fra le istituzioni cittadine, potessero essere ammesse anche le donne). L’assenza di quinte e fondali non era “mancanza” ma scenografia: lo sfondo, il contesto, era la poleis che rappresentava e di fatto era l’habitat naturale. La Tragedia trattava di miti divini o di uomini contrapposti a divinità, ma parlava direttamente a quegli uomini seduti sulle gradinate volendo stimolare, attraverso un processo di identificazione con la scena, un percorso interiore, una catarsi, una rinascita di se stessi, un arricchimento. La catarsi è un rito magico di purificazione che attraverso esperienze forti, anche traumatiche, libera l’uomo da ogni “contaminazione”. I riti orgiastici orfico-dionisiaci tendevano a questi scopi attraverso (oltre al vino) la musica, la danza e il canto delle Baccanti spesso ossessivamente ripetuti. Sulla scena tragica si ripete lo stesso percorso, ma il rito non è per il personaggio e nemmeno per l’attore; il rito è in funzione di chi assiste ed è per questo che risulta riduttivo chiamarlo spettatore. L’eroe, quindi l’attore, rappresenta Dioniso stesso e il coro i satiri. Il coro è una sorta di muro vivente, come un cuscinetto protettivo fra gli “spettatori” e l’attore, gli spettatori e l’orrore della scena, gli spettatori e l’abisso dell’esistenza. Il canto del coro accompagna lo svolgimento della vicenda filtrando le nefandezze sulla scena e, opponendosi all’attore, lo demitizza e lo fa diventare uno di noi offrendo la possibilità di rapportarsi al personaggio, fuor di metafora cogliendone l’essenza simbolica. Ma gli “spettatori” facendosi accompagnare dal coro nelle vicende, finiscono con l’identificarsi con il coro stesso, smorzando quegli eccessi crudi e forti, direi lettaralmente tragici, che la scena presenta. In aggiunta al processo descritto sinora è importante far notare che in nessuna componente della Tragedia Greca esiste il benché minimo giudizio morale, nessuno giudica gli eroi o i loro comportamenti che sono messi in scena per scandagliare l’intimo profondo di ognuno. Ricapitolando: ad una Tragedia partecipava tutta la poleis, e sottolineo partecipava, come ad un rito collettivo. Lo spirito apollineo è chiamato nella Tragedia Greca a ristabilire un equilibrio con lo spirito dionisiaco in quel filo indelebile che lega la Tragedia con la vita. Questo, ad avviso di Nietzsche, soprattutto nel primo periodo, quello di Eschilo, già con Sofocle ma soprattutto con Euripide inizia il declino della Tragedia Greca intesa come continuum con il proprio mondo. Nell’epoca di Euripide c’è Socrate, la filosofia, ovvero la possibilità di spiegare razionalmente il mondo e si rompe quell’equilibrio rivelatore fra apollineo e dionisiaco. L’età d’oro della poleis finisce e si deteriora sempre più sino ad arrivare a guerre trentennali fra le città greche che mineranno la redaci della loro stessa civiltà. I cittadini diverranno individui e la funzione originale della Tragedia Greca andrà via via scemando. Non c’è alcun giudizio di merito nelle mie parole, nessu meglio questa o meglio l’altra, solo la constatazione di un avvenuto mutamento del contesto storico e sociale e, visto il legame indissolubile che ha legato nella sua prima fase il Teatro con il mondo circostante, la naturale trasformazione in un genere. Ora possiamo a pieno titolo parlare di forma artistica e chi scrive certo non considera la cosa una diminutio. Il coro stesso, che era alla base della Tragedia Greca ed esisteva già prima che essa nascesse, in Euripide perde la sua funzione “metafisica” e diventa componente del testo, una sorta di regia in scena, di guida per lo spettatore. I racconti riguardano sempre i miti e gli eroi che possono essere anche gli stessi… gli stessi appunto e non i medesimi. Il Teatro, che è nato dalla Poesia Epica ed è diventato scena attraverso la Tragedia Greca quale parte integrante della vita pubblica, diventa espressione, forma d’arte e la Tragedia diventerà genere. Essa non sarà più quel tutt’uno con la vita e non lo sarà mai più per tutto il corso della sua lunghissima vita (XXV secoli) e personalmente oserei dire che nemmeno in futuro potrà esserlo mai più. Con l’età della poleis termina la vicenda della Tragedia Greca, a Roma ad esempio tranne i primissimi autori (Livio Andronico, Nevio, Ennio) non si scrissero più tragedie, soprattutto non si rappresentarono più tragedie. Nei secoli successivi scrisse tragedie Seneca, ma si tratta di opere destinate alla lettura. Passeranno invece molti secoli prima che il genere Tragedia torni a calcare le scene…
Ma ne parleremo nei prossimi articoli …
Renato Barletti ©2016
Potete seguire Renato ogni sabato in “Suggestioni e percorsi poetici”