Conosci il Teatro? MEDEA di Euripide (2)

clickando qui trovate la 1. parte…

… Al secondo anno del Liceo il programma di Greco comprendeva la traduzione integrale di Medea di Euripide. Per inciso non è che io studiassi molto al Liceo, anzi pochissimo, anzi a dire il vero quasi nulla; troppo impegnato a fare spettacoli, concerti, assemblee, scioperi e casini vari per avere il tempo e l’interesse di studiare le materie scolastiche. Però ho sempre dormito molto poco e la sera e gran parte della notte a casa leggevo e studiavo, certo non le materie scolastiche, ma leggevo e studiavo. Una delle pochissime cose “della scuola” che studiai a fondo in quelle notti con l’abat jour fu Medea, non tanto per le interrogazioni quanto per approfondire il più possibile l’argomento. Così lessi quasi tutto quello che era stato scritto nell’antichità sul suo mito (Apollonio Rodio, Ovidio, Seneca) e poi lessi anche le opere delle epoche successive come la tragedia di Corneille, la trilogia di Grillparzer e la tragedia di Niccolini, insomma un approfondimento niente male. Un paio di anni dopo scrissi anche il testo di una canzone (Medea blues). Come mai un personaggio così classico aveva un fascino irresistibile per quel ragazzo tanto preso a dissacrare le cose “vecchie” e ad inventarsi sempre nuovi stimoli e sperimentare generi e forme? La risposta me la sono data nel tempo guardando quel ragazzo e la sua vita con il filtro del Tempo e della distanza nello Spazio. Recentemente ho scritto: “la mia tragedia greca preferita è Medea che reputo una delle storie più straordinarie della letteratura di ogni epoca e forse l’opera teatrale più grande di sempre”. Penso questo perché Il personaggio Medea è universale, senza Tempo e adattabile a qualsiasi tipo di forma espressiva o genere, uno dei pochissimi di questa levatura; mi vengono in mente Ulisse, Giulio Cesare, Faust, Anfitrione, Arpagone con i vari suoi nomi e poi non saprei chi altri. Nello specifico Medea di Euripide è una tragedia assolutamente innovativa che propone tematiche universali sia nel senso delle caratteristiche umane dei personaggi che delle tematiche attualissime ancora oggi. Vorrei parlare di questa tragedia provando ad immedesimarci in un cittadino ateniese che in un pomeriggio di maggio del 431 a.C. si reca a teatro per le rappresentazioni dell’agone nell’ambito delle celebrazioni dionisiache. Quel giorno Euripide presenta Medea; proviamo a comprendere come i cittadini si siano identificati con i temi “universali” e quanto si siano sentiti “spiazzati” dalle novità messe in scena.

La classicità del personaggio Medea è fuor di dubbio come lo è la sua tragicità. Una volta durante una lezione ad una scuola di teatro ho sentito questa frase rivolta da una insegnante ad un’allieva che non riusciva a entrare in una parte comica: “non puoi mica sempre fare Medea”. Proprio a dire che l’allieva non poteva sempre fare le parti tragiche, credo che la frase risponda ad un luogo comune che come tutti i luoghi comuni ha un fondo di verità, almeno di quella percepita: Medea è il prototipo dell’eroina tragica. Lo è per la vicenda di sofferenza estrema, perché è sfidata da un antagonista, perché è una reietta ed infine perché “reagisce” a questo destino in maniera eclatante ed eccessiva. Medea ama profondamente Giasone e per lui rinuncia a tutto: alla propria terra, alla famiglia e per aiutare gli argonauti a fuggire dopo il “furto” del vello d’oro uccide il fratello e dopo averlo smembrato lo getta pezzo dopo pezzo in mare per rallentare l’inseguimento della flotta del re della Colchide, suo padre. Insomma una grande prova di amore verso Giasone. Questo in Medea di Euripide non c’è, ma per ogni greco del V secolo era una storia conosciutissima, direi identificativa del personaggio. La vicenda in Euripide inizia quando i due sono ormai da anni a vivere a Corinto con i due figli, sembra un normale quadro familiare. Però dopo qualche anno Giasone comunica a Medea che la ripudierà come moglie e lei lo incalza per farsi rivelare il motivo della cosa. Giasone non la lascia perché innamoratosi di un’altra donna, ma per un calcolo di potere: vuole sposare Glauce, la figlia del re di Corinto Creonte. Il suo destino (ananke) di eroe si deve compiere con il raggiungimento del trono di una delle città più importanti di Grecia. Medea sembra parare il colpo e non dà adito a dispute con il consorte, non chiede nemmeno troppe spiegazioni, lo sconforto e l’umiliazione la prendono in questa fase quasi paralizzandola. A questo punto Euripide le fa fare qualcosa di impensabile per il senso stesso della civiltà greca. Apro una parentesi: le donne nelle poleis greche non avevano nessun ruolo né alcun peso, la condizione femminile si riduceva di fatto alla procreazione e poi ad una lunga vita fra le mura domestiche, nemmeno l’educazione dei figli era loro deputata. Altro punto debole, soprattutto ad Atene, era il diritto di cittadinanza che spettava esclusivamente ai nati e non potevano ottenerlo nemmeno i molti che non erano cittadini ma che vivevano ad Atene già da molto tempo. Quindi il quadro era di una poleis sì democratica, ma molto “aristocratica” nel senso del mantenimento di un numero chiuso di cittadini anche se le dinamiche ormai stavano determinando una pluralità degli abitanti provenienti dalle altre poleis greche. Inoltre poche settimane prima era iniziato quel conflitto, che durerà una trentina di anni, passato alla storia come Guerra del Peloponneso con implicazioni davvero tragiche per Atene e per tutta la grecità. Sicuramente già in quel primissimo periodo il problema che oggi definiremmo “immigrati” era molto sentito sia dai cittadini che dai noncittadini. Fatte queste premesse, davanti a questa popolazione (anche i noncittadini partecipavano alle dionisiache, magari trovando posto nei prati intorno e sopra le gradinate) c’è Medea che si sente tradita ed abbandonata e in scena davanti alle donne di Corinto, sottolineo alle donne, fa il suo “discorso”:

“Donne di Corinto, eccomi, sono uscita dal palazzo: così non avrete nulla da rimproverarmi. So di molti che sono passati per superbi, sia in questo sia in altri paesi: erano gente riservata e invece si sono acquisiti la brutta nomea di persone insensibili. Ma non si può giudicare in modo obiettivo quando ci si sofferma all’apparenza: bisogna conoscere l’animo di una persona a fondo e non odiarla a prima vista senza che ci abbia inflitto alcun torto. Certo, uno straniero deve adattarsi agli usi del paese che lo ospita, ma non lodo davvero un nativo arrogante che si renda antipatico ai suoi concittadini perché è un incivile. La sciagura inattesa che si è abbattuta su di me mi ha schiantato, ha distrutto la mia esistenza. Non provo più gioia a vivere, desidero solo la morte, amiche mie. Lo riconosco, il mio sposo era tutto per me e mi si è rivelato il peggiore degli individui. Fra tutte le creature dotate di anima e intelligenza, noi donne siamo le più sventurate. Intanto, dobbiamo comprarci con una robusta dote un marito, anzi prenderci un padrone del nostro corpo, che è malanno peggiore. Ma anche nella scelta c’è un grosso rischio: sarà buono o cattivo, il marito che ci prendiamo? Tra l’altro la separazione è infamante per una donna e di ripudiare un marito neanche se ne parla. E poi, una donna che entra in un nuovo ambiente, dove esistono norme e abitudini diverse, deve essere un’indovina – certo non lo ha imparato a casa – per sapere con che compagno dovrà passare le sue notti. Mettiamo che i nostri sforzi vadano a buon fine, che lo sposo sopporti di buon grado il giogo del matrimonio: allora sì che l’esistenza è invidiabile. Ma in caso contrario, è meglio morire. Un uomo quando è stanco di starsene in famiglia esce, evade dalla noia [si ritrova con amici e coetanei]; noi donne invece siamo costrette ad avere sotto gli occhi sempre un’unica persona. Si blatera che conduciamo una vita priva di rischi, tra le mura domestiche, mentre i maschi vanno a battersi in guerra. Che assurdità! Preferirei cento volte combattere che partorire una volta sola.
Ma questo è un discorso che riguarda me e non te. Tu vivi nel tuo paese, a casa tua, con tutti gli agi, in mezzo agli amici. Io sono sola, priva di patria, sottoposta agli oltraggi dell’uomo che mi ha portato via come preda da una terra di barbari. Mi trovo in una situazione disperata, e non mi possono salvare madre o fratello o parenti. Un’unica cosa ti chiedo: non aprire bocca, se trovo un mezzo, un espediente per ripagare del male che mi ha fatto mio marito [e sua moglie e suo suocero]. Una donna in genere è piena di paure, è vile di fronte all’azione violenta, e alla vista di un’arma. Ma quando ne calpestano i diritti coniugali, non esiste essere più sanguinario di lei.”

Per la prima volta nel mondo greco, direi per la prima volta nella storia, una donna rivendica pubblicamente la non accettazione della posizione subalterna del proprio genere. Per pubblicamente non intendo a Corinto in un’epoca mitizzata ma quel giorno lì davanti a tutta la popolazione della poleis ateniese; pertanto Euripide fa una dichiarazione politica, affermando che la posizione della donna in seno alla società ateniese (greca) è infima e che le cose dovranno cambiare. Credo che quello sia stato uno di quei momenti che minano lo status quo sociale di un popolo. Medea parla di “esuli in terra straniera” in quel contesto, anche le negatività della condizione di esule vengono pubblicamente dichiarate; non vorrei fare facili analogie con il mondo attuale… Euripide rappresenta nel teatro greco il cambiamento, lo spostarsi del focus dal mito alla collettività, all’individuo; rappresenta soprattutto la trasformazione di un mondo. Aristofane lo farà bersaglio di scherno in due commedie: amico di Socrate ed dei sofisti ne Le Nuvole e addirittura lo dipinge come un misogino ne Le Donne alle Tesmoforie. Certo Euripide era amico personale di Socrate ed era stato allievo di Protagora, forse il più illustre dei sofisti, ma è interessante notare la sua identificazione con la misoginia. Aristofane è legatissimo alla poleis classica e per certi versi è un conservatore e le “novità” della poetica di Euripide lo toccavano così come scuotevano gli ateniesi. Dopo il discorso Medea finge una serenità che insospettisce il re Creonte il quale emette un’ordinanza di espulsione dalla città: da esule a cacciata. Quando Giasone le va a parlare Medea gli rivolge una altro discorso, questa volta privato, nel quale delinea la personalità e le azioni di Giasone. L’eroe viene dipinto come una persona meschina, dalla scarsa personalità e con poco coraggio, altro che eroe mitologico! un uomo con tutti le sue debolezze, i difetti e la propensione all’opportunismo. Giasone le risponde poco e definisce il proprio personaggio ripetendo che sposerà Glauce per diventare re di Corinto, opportunismo appunto. A questo punto della tragedia Medea torna ad essere la donna vendicativa e sanguinaria del mito e grazie alle sue capacità “magiche” avvelena sia Glauce che Creonte. Giasone teme ulteriori sviluppi di quella vendetta e corre da Medea nel tentativo di salvare i due figli ma, scena finale, riesce solo ad intravedere Medea che fugge verso Atene sul carro alato del dio Helios, del quale era nipote. Ma non fugge e basta, sul carro ci sono i cadaveri dei due figli che ha appena ucciso come estrema vendetta nei confronti di Giasone: mi hai abbandonata per un’altra e io ti ho ucciso lei e la possibilità di diventare re e poi ti ho tolto la possibilità di avere una stirpe. Tutto questo con lo spettacolare intervento del deus ex machina che proprio Euripide utilizzerà in maniera crescente al contrario del coro che diventerà sempre meno coinvolto nello svolgimento della tragedia.

Nella Tragedia Greca si è sempre svolta la dicotomia fra l’eroe e l’antagonista, a volte un divino e un umano e altre due umani, simbolicamente fra spirito dionisiaco e spirito apollineo, ma questa volta è diverso. Medea domina la scena in maniera assoluta, la sua personalità straripante non ammette contraltari e la dicotomia sembra essere in lei stessa. Come avesse una doppia personalità, due personalità in conflitto fra di loro, come Aiace in conflitto con Atena oppure Oreste con Clitemnestra; Medea è in conflitto con se stessa, sempre. Prima della scena finale c’è la moglie che brama la vendetta verso il marito e la mamma che mai vorrebbe uccidere i figli in un conflitto interiore che la dilania e sembra senza possibile soluzione. Ma come in un salto di frame appare il deus ex machina che la fa volare via sul suo carro attribuendole per sempre l’appellativo di figlicida, forse il più efferato dei delitti. Medea è rimasta il simbolo della crudeltà. In Euripide è una donna dilaniata dalle proprie pulsioni contrastanti, una donna che subisce torti e reagisce in maniera esageratamente crudele ed è anche il contraltare di Giasone, un uomo con poche “qualità” che la sfrutta a proprio tornaconto e poi la lascia per la propria ambizione. Intendiamoci, è chiaro che ci chi scrive è affascinato dal personaggio Medea, quindi vorrei ricordare che la Tragedia Greca va sempre “letta” in chiave simbolica e, penso io, Euripide, al di là dei topoi classici dell’abbandono, la crudeltà, la vendetta, ha voluto portare simbolicamente davanti a tutti la condizione delle donne attraverso la vicenda di Medea. Questa donna che non era nemmeno greca, una barbara come si definisce lei stessa (la Colchide è fra il Mar Nero e il Mar Caspio), quindi esule due volte e reietta, questa donna “maga” quindi sospetta a prescindere, questa donna dalla forte personalità quindi improponibile in quel mondo. Euripide mina quel mondo, lo fa attraverso la poesia trasformando la Tragedia Greca. Io aggiungerei che attraverso i suoi personaggi ha innalzato per la prima volta l’individuo a protagonista della scena e della propria vita prevenendo e determinando, credo, gli sviluppi che avrebbe preso il mondo da lì in poi. Il Teatro diventa una vera e propria forma d’arte spezzando quel continuum con il mondo della poleis e portando in scena individui con le proprie varie sfaccettare: Euripide determina il passaggio dal mito all’umano.

Renato Barletti ©2017

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“CONOSCERE IL TEATRO: ORIGINI ED EREDITÀ”