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La settimana scorsa una mia allieva, che è a sua volta insegnante di scrittura creativa, ha espresso un ragionamento che mi ha spinto a fare alcune riflessioni intorno alla “materia” e ispirato a scrivere questo articolo che, premetto, varcherà più volte il limite della polemica:
“scrivere è essenzialmente un atto di presunzione, è porre se stessi in relazione con i più alti parametri umani (Thomas Stern Eliot direbbe “con l’universo”). L’umiltà sta nel considerare sempre un uditorio al quale rivolgersi, il resto è l’orgoglio di affermare se stessi diventando parola scritta senza porsi alcun limite”.
Brava Vanessa, essenziale e profonda: i due punti focali che abbiamo posto al centro del percorso svolto insieme. Sì perché la ridondanza, i troppi particolari, il girarci intorno, l’eccesso di figure retoriche, le articolazioni chilometriche e cose del genere non sono altro che l’espressione della non creatività. Vi sembra strano ascoltare ciò? Peccato, mi spiace ma il primo gradino della scrittura, dell’espressività in senso generale per me non c’è distinzione di fondo, è proprio lo sfalciare la retorica in sovrappeso utilizzando soltanto quella che “serve” al discorso che si sta facendo. Pulire il discorso con parti ognuna a lui funzionale! Per profondità invece non intendo la pesantezza degli argomenti, che anzi spesso possono essere come la troppa retorica, ma l’avere chiaro cosa si ha da dire, cosa si vuole dire e come lo si vuole dire. Bisogna porsi queste tre domande al momento di accingersi a scrivere altrimenti il discorso non si materializzerà mai e la fumosità disperderà la sua possibile comprensione. Ricapitolando: ho in mente “qualcosa” da dire, mi chiedo come e a chi voglio dirla, la scrivo. Quindi c’è un lavoro a priori nella propria testa, poi l’atto dello scrivere ed infine un effetto a posteriori nella testa del proprio uditorio, senza quest’ultimo qualsiasi forma espressiva è mutilata, direi inesistente. Personalmente aborro da espressioni come “si scrive per sé” o “non mi importa degli altri” e consiglio vivamente prima anche solo di pensare a scrivere di togliersele di mente, a meno che non si voglia iniziare con “caro diario…” Questa materia è per sua natura molto variegata ed indistinta perché risulta chiaro che ad insegnarla debba essere uno scrittore creativo. Sarebbe auspicabile che ognuno abbia delle diversità, intrinseche ed estrinseche, dall’altro; ovvio, altrimenti che “creativo” è? Di conseguenza metodi, riferimenti e contenuti degli insegnamenti cambiano a seconda dell’insegnante. Porto ad esempio autori del passato così da non urtare la sensibilità di nessuno. Mi vengono in mente su due piedi Dino Buzzati, Beppe Fenoglio, Achille Campanile, Ennio Flaiano ed Edoardo Sanguineti; qualcun altro mi sfuggirà ma considero loro creativi per davvero, anche nel senso del linguaggio e della forma. Sgomberiamo il campo da fraintendimenti: considero banale il pensiero secondo cui essere creativi significa “essere bravi a creare e raccontare storie”, perlomeno riduttivo, molto riduttivo. Non sto dicendo che se non si è uno di loro non si possa insegnare scrittura creativa, sto portando degli esempi e quando si portano esempi ci si riferisce a quelli che si reputano più alti. Questi, ognuno a modo suo, sono ottimi inventori e narratori di storie e lo fanno con uno stile assolutamente personale e con un uso “particolare” della lingua e per alcuni di essi nei generi più diversi. Ecco: la lingua, è lei il fulcro di tutto, lo strumento, il mezzo e il fine; si lavora con, su e per la lingua. Sembra ovvio, ma meglio dirlo. Come è ovvio che sto parlando della lingua italiana, di antica e nobile origine, di alta tradizione e di comune contemporaneo svilimento. Facendo un ragionamento inverso, considero (oggi, inizio XXI secolo) alla base della non creatività tre tipi di linguaggio, due sono gli estremi della banalizzazione e il terzo l’appiattimento dell’individualità dello scrittore in nome del moloch che vuole, vorrebbe, forse riesce a determinare il linguaggio stesso:
- Lo stile classico. L’Italiano è nato come lingua popolare (volgare, i diversi volgari) stilizzata dai grandi autori del XIII/XIV secolo. Sarà Pietro Bembo nel XVI secolo a definire Italiano “il volgare fiorentino di alta tradizione” e ad indicare negli stili di Petrarca e Boccaccio, rispettivamente per la Poesia e per la prosa, i modelli da seguire. Nei secoli successivi la lezione del Bembo è stata seguita determinando una cristallizzazione dello stile e della lingua stessa che, intendiamoci bene, era cosa per pochi, quei pochi non analfabeti sceverati dall’uso dei dialetti. Con un’immagine che può sembrare provocatoria sono uso affermare che è stata elitariamente “conservata come una reliquia” perpetuando appunto gli stili delle due corone. Nella prosa sarà Manzoni il primo a “portare il profumo della polenta” nella scrittura e poi all’inizio del Novecento nella Poesia le diverse avanguardie, singole e di corrente. Oggi, oltre un secolo dopo, la lingua è cambiata grazie principalmente all’alfabetizzazione di massa e l’Italiano è, in linea teorica, la lingua di tutti. A me pare che in Poesia sovente, in nome di un vago concetto di bello, si cancelli molto del Novecento per rifarsi alle metriche e alle rime ampiamente frequentate (l’ho scritto più volte: è la non poesia, quale creatività può esserci in essa: solo il fatto di averla scritta?). Nella prosa avviene molto meno e non in seguito a teorizzazioni, ma mi capita non raramente di trovare tratti di scrittura boccaccesca, ovvero periodi molto lunghi, serie di gerundi che rimandano di frase in frase, iperdescrittività, passati remoti in abbondanza, pronomi altisonanti, ecc.. Forse l’intenzione degli autori è quella di “elevare il proprio discorso” referenziandolo; ecco se è questa ottengono l’effetto contrario svilendolo. Oggi, XXI secolo, non si può; cioè se volete potete, ma io affermerò sempre che è spazzatura, come lo è quando sento certi cantanti che ripropongono gli stili di Nilla Pizzi o Gino Latilla.
- Il linguaggio televisivo. Potrei anche fermarmi qui e non spiegare nulla, basta aprire il televisore su un programma a caso e sentirete una continua ridda di superlativi a condire una lingua appiattita. Alla base c’è un fraintendimento di fondo che personalmente reputo non casuale ma frutto di un programma “politico” di spersonalizzazione degli ascoltatori/consumatori. Non sviluppo questo discorso che sfocerebbe nella sociologia, voglio solo dire che la lingua è importante e che se si vogliono allevare compratori/utenti in batteria si parte da qui.
- Lo stile degli editor. Il moloch di cui parlavo prima è chiaramente l’editoria. Mi pare che, fatte le dovute proporzioni, possa valere il discorso fatto al punto precedente. Il nocciolo della questione sta nello scrivere (editare) per un pubblico omogeneo al quale si sa bene che prodotto offrire oppure per un pubblico eterogeneo in grado di apprezzare o meno i prodotti offerti. La questione è la selezione che nel secondo caso verrebbe fatta dal pubblico mentre nel primo a priori dall’industria editoriale. Credo che oggi in Italia sia l’editoria a “dettare” le scelte, certo ci sono piccole realtà che propongono cose diverse ma un cinque o dieci per cento di un tutto determina poco. Mi pare che il “mercato” abbia stabilito innanzitutto l’elevazione di un genere a re assoluto della letteratura, quasi unico. Inoltre, sempre mi pare, che questo genere sia stilizzato nei canoni della vendibilità, della leggibilità, della riconoscibilità (anche in questo caso, è creatività solo per aver scritto un romanzo?).
Volevo fare una premessa e invece sono andato oltre, ma nel frattempo mi sono portato avanti con il discorso che avevo intenzione di sviluppare. Quindi l’equazione scrittura creativa uguale a romanzo, o narrativa nel migliore dei casi, per me non esiste. Purtroppo, sempre mi pare per non apparire presuntuoso, reputo che nel più dei casi sia proprio il contrario: trovo poca creatività nella narrativa contemporanea, mentre ci riscontro quasi sempre schemi e stilemi che ritornano. Ma chi li scrive i romanzi? Non saranno mica quasi tutti scritti da un piccolo pool di editor? Ovvio che no, ma potrebbe sembrarlo al classico uomo catapultato stanotte sulla terra da qualche pianeta lontano. Esco dalla polemica affermando che creatività è un qualcosa di impalpabile che però si avverte subito, non è raccontare una storia inventata, ma come la si racconta, ad esempio. Poi è anche altro nella forma, nello svolgimento e nella sostanza. Questo bisogna insegnare, questa è la scrittura creativa, per ognuno secondo i propri parametri. Non bisogna confondersi con i criteri di comprensibilità e di verosimiglianza, questi sono degli a priori della scrittura, sto parlando di un’altra cosa. Se si vuole valorizzare o sviluppare la creatività bisogna proporre percorsi che prospettino l’esplorazione di nuove possibilità. La creatività di ognuno risiede sempre oltre l’orizzonte, al di qua c’è il copia e incolla, di se stessi o di altri poco importa. Quindi non solo racconti e romanzi, ma anche altro; non solo poesie, canzoni, cinema o teatro, ma anche altro. Soprattutto non partire finalizzati a forme di scrittura collettiva (che possono venire, certo, ma possono e non devono per contratto); se vi raccontano che tutti possono essere scrittori diffidate perché probabilmente vi stanno vendendo un prodotto. Usciamo fuori dalla retorica del “caro diario…”. Tutti possomo imparare a scrivere bene, in maniera comprensiva e creativa, questo sicuramente; da qui ad essere scrittori, beh… c’è una bella differenza. Ci sono degli esempi di scrittura collettiva molto elevati, ma in tanti casi si tratta di scimmiottamento di quegli esempi. Non vorrei che ci si standardizzasse in format prestabiliti creando così l’opposto della creatività. Lo dico oggi che in fondo siamo alle prime esperienze della scrittura creativa senza riferirmi a nessuno, lo dico come Cassandra che non vorrebbe prevedere scenari appiattiti, che non vorrebbe che l’industria prendesse il sopravvento sull’artigianato. Perché siamo artigiani, è bene ricordarlo; gli editor per lo più sono industria e Cassandra desidererebbe che gli insegnanti siano ora ed in futuro dei creativi e non dei funzionari. La letteratura si può insegnare anche se non si è autori, gli aspetti tecnici delle varie arti anche senza essere artisti; la creatività no se non si è creativi innanzitutto.
P.S.: una ventina di anni fa ho scritto una poesia pensando all’editoria e ai “poeti del bello” che allora andavano di moda in Italia. Questa poesia non ha una visione molto “allegra”, non paventa nessun tipo di ottimismo riguardo alla poesia e al mondo degli editori. Proprio in quegli anni prendeva piede l’editoria a pagamento, ovvero la geniale trovata per racimolare qualche soldo di non vendere i libri ai lettori, ma ai poeti (spesso presunti tali). In questa maniera si vezzeggia l’ego di molti che possono dirsi o farsi chiamare poeti, anche questa ovviamente per me è la non poesia. Personalmente credevo che questo fosse l’atto tombale per la Poesia, che non se ne sarebbe mai più venuti fuori, poi ho smussato i miei angoli e compreso che tanto la Poesia non muore mai anche se il novanta per cento, circa, di quello che si spaccia per Poesia non lo è. Forse in questi ultimi anni, con la rete e le nuove possibilità di pubblicare/pubblicarsi qualcosa è cambiato; sicuramente i vessilliferi del bello hanno esaurito il loro vociare. Ecco non vorrei che una cosa simile accadesse con la scrittura creativa, intendo riguardo all’insegnamento di questa materia. Ovvero che si costruisca un meccanismo per fare “tendenza” e si appiattisca la cosa allo scopo di avvicinare quanti più clienti possibile… certo intendo sempre nel novanta per cento dei casi… vedremo fra venti anni, intanto mi canticchio il ritornello che mi è venuto fuori scrivendo questo articolo: “siamo artigiani e non industriali”, con l’augurio di non dovere fra qualche tempo scrivere un’altra poesia o racconto o canzone o piece di analogo tono sulla creatività.
IL MECCANISMO E I NUOVI CORTIGIANI
Quando senti esplodere le tempie
la morsa della normalità ha serrato le ganasce
sei cinto nel fatale amplesso di questa esiziale garrota:
tanti meschini o pomposi palliativici cachet
allieteranno questi cinquanta o sessanta anni
che indugi a trascorrere ancora
No……… grazie!
preferisco non bere liquori invecchiati
pennellando di celeste il bello
mi basta aggirarmi clandestino
in oscuri vicoli di periferia
finché sarò clochard della cultura
la mia arte sarà un guanto di sfida
gettato in volto al Meccanismo
il mio celeste uno squarcio nell’ovvio
il mio rosso l’inchiostro dell’anima
i miei versi la voce dei sensi
la mia musica un ritmo di vita
sperduta incoerente lontana
fiero e disinvolto controcanto
alle sorridenti filastrocche cantate
al vostro generoso committente
incorporeo onnipotente inesistente:
Mercato
Ah dimenticavo: non odio la forma romanzo, se avete avuto questa impressione cliccate qui
Renato Barletti ©2017
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